
Quando il basket è una questione di famiglia. Vandelli: "Tutta ’colpa’ di mio figlio Marco"
"E pensare che quando ero ragazzo, un allievo della polizia di Stato alto 191 centimetri in mezzo a 250 colleghi che arrivavano a fatica al metro e 70, l’altezza la vivevo come un vero problema, tanto da tendere a curvare le spalle, per provare a essere meno appariscente. Cos’è che ha cambiato tutto? Marco, mio figlio. Dal giorno in cui ha preso in mano il suo primo pallone da basket".
Ugo Vandelli, bolognese di nascita e cesenate d’adozione, conosciuto in città da decenni sia per il suo ruolo di sostituto commissario di polizia (ora in pensione) che per il suo solido legame col mondo della palla a spicchi, sorride, scherza, ma anche si emoziona, pensando a un legame che per ogni genitore viene anni luce prima di qualsiasi altra cosa.
Vandelli, dunque lei e il basket vi siete incontrati tardi.
"Di più. Inizialmente proprio non mi piaceva, perché mi faceva costantemente pensare a quello che per me era diventato un vero tabù, la statura. E aveva voglia mia mamma a dirmi: “Altezza, mezza bellezza“… Non ero affatto convinto".
Fino a quando…
"È nato Marco. Era magro, molto magro. I medici ci dissero che aveva bisogno di praticare sport e ci proposero due alternative: nuoto o pallacanestro. Cominciammo col primo".
Come andò?
"Malissimo. Ogni volta che usciva dalla piscina finiva con l’ammalarsi. Serviva altro e così decidemmo di spostarci in palestra. Lì incontro il compianto Renzo Pollini, che ci ha lasciato troppo presto poco tempo fa, e Pierpaolo Senni, che è ancora uno dei punti di riferimento del basket cittadino. Furono i suoi primi allenatori, quelli che lo fecero innamorare del gioco".
E lei dietro.
"Non così in fretta. La vera protagonista è stata mia moglie Cristina, che mentre io ero al lavoro si caricava Marco in auto insieme agli amici e portava tutti avanti e indietro agli allenamenti, con una passione e un entusiasmo che ogni volta che ci penso, mi emoziono. Io arrivai dopo, quando ormai Marco era più grandicello. Al tempo aveva messo il divieto ai genitori di andare a vederlo giocare".
Lo ascoltavate?
"Assolutamente no. Andavamo in incognito, nascondendoci dietro alle porte e alle colonne. Fino a quando arrivò il suo via libera ufficiale. Da allora non mi sono perso più niente".
Marco è arrivato fino in B1 e nel frattempo lei è entrato a far parte di quel mondo.
"Amo stare in mezzo ai giovani, mi sento a mio agio e lo spirito vola. Ma non è sempre andata benissimo".
Racconti.
"Ero l’addetto agli arbitri in una gara al Carisport. C’erano gli animi caldi, a fine gara accompagnai i fischietti negli spogliatoi. Dovevo restare a presidiare, ma in campo scoppiò una rissa. Ero anche poliziotto, lasciai il mio posto per andare a sedare gli animi e così facendo mi beccai una bella lavata di capo, che ricordo ancora col sorriso. Anche perché venne da Francesco Fagioli, attuale presidente della Cesena 2005, un amico".
Pure ora è addetto agli arbitri, della squadra nella quale l’allenatore è suo figlio.
"Abbasso la voce: per me è un onore. Girarmi verso la panchina e vedere mio figlio a pochi passi che condivide con me un percorso importante della sua vita, non si compra con niente. Ora sussurro: spero che valga, almeno un po’, anche per lui".
Luca Ravaglia