
Quando il papà perde la testa: "Troppe aspettative sui figli"
Il padre di Cristian Shpendi che domenica pomeriggio ha invaso il campo dell’Orogel Stadium Dino Manuzzi prendendo di mira il portiere avversario (e che col suo gesto ieri si è visto accollare un daspo di tre anni) è, purtroppo, soltanto la punta di un iceberg la cui base comincia molto più in basso, a livello delle squadre giovanili e dello sport dilettantistico.
"Si parte dalle giovanili – sospira Davide Ceccaroni, presidente della sezione cesenate Uisp - Farebbe ridere, se non fosse così triste, raccontare dei nonni che si aspettavano fuori da un campetto di calcio per ‘regolare conti’ che soltanto loro credevano si fossero aperti in campo tra i rispettivi nipoti. Le tribune in certi casi sono ben lontane dall’essere luoghi di svago delle famiglie che si godono qualche ora di divertimento seguendo i propri figli. C’è chi se la prende con l’arbitro, chi con l’allenatore e chi con gli avversari. E i toni sono spesso decisamente sopra le righe".
L’argomento è uno dei frutti della ‘cultura’ del ventunesimo secolo, nel quale si stanno facendo largo atteggiamenti e convinzioni che in un passato non troppo lontano non erano nemmeno ipotizzabili. "Fino a qualche anno fa – riprende Ceccaroni – nell’immaginario collettivo c’era l’idea romantica del calciatore visto come il ragazzo che è riuscito a trasformare la passione della vita in un lavoro. Ora invece si parla dei contratti, dei mega assegni, delle piogge di milioni. Così si finisce fuori strada". Quello che un padre non è riuscito a fare, allora deve farlo il figlio, che magari col primo stipendio potrebbe permettere al genitore di cambiare auto, mollare il lavoro e sostituire l’appartamento con la villa vista mare. "Così arriviamo ai genitori che si aggrappano alle transenne, pronti a prendersela con chiunque, a loro avviso, si stia mettendo sulla strada che porterà il figlio a calcare chissà quale palcoscenico. E se il ragazzo non ci riesce, non dipende dal fatto che il grande talento non è per tutti, ma piuttosto dall’incompetenza di allenatori e compagni. E’ triste, davvero. Chi legge queste riflessioni quanti anni ha? Si ricorda di quando era ragazzo e andava al campetto del quartiere? Ora tante squadre non ci sono più, si sono perse le realtà dove tutti potevano giocare e divertirsi. Ora l’unica cosa che conta sta diventando la voglia di emergere. Un tempo si tornava a casa sudati, magari dopo aver perso, ma comunque felici. Ora si torna a casa con la pattuglia della polizia o dei carabinieri che qualcuno ha fatto intervenire per placare gli animi dei papà. Serve tornare dove eravamo. Farlo è una responsabilità anche della politica, che deve tutelare lo sport per tutti, nel vero senso della parola".
Sul tema interviene anche Nicoletta Tozzi, presidente dell’Atletica Endas Cesena, con un passato da campionessa in pista, ma anche mental coach e da sempre immersa a 360 gradi nel mondo dello sport. "Ricordo i primi anni nei quali collaboravo con il Cesena Calcio anche come responsabile formazione – riflette – tra le prime cose che proposi ci fu l’idea di avviare dei corsi per genitori. La proposta venne subito accolta con entusiasmo, perché il trend che si stava delineando era già evidente. Credo tanto nello sport e nel suo enorme potenziale nel far crescere giovani migliori, ma è anche vero che le famiglie hanno la possibilità di inceppare questo meccanismo virtuoso. In tanti campi mi è capitato di leggere le regole di un decalogo rivolto ai genitori, che spesso però non vengono rispettate, nel nome di non si bene quali competenze che certe persone ritengono di dover far valere. Un genitore può essere un problema o una risorsa. Tocca a lui scegliere e in base alla sua scelta cambiano molte cose. Per i figli, prima di tutto".
La strada indicata da Tozzi è quella che passa da un approccio diverso con le sfide della vita: "Non è solo una questione relativa allo sport, ma a tutta la società, scuola compresa. Oggi spesso i genitori finiscono col voler fare gli avvocati dei figli. E in questo modo non li aiutano affatto. Mio babbo tifava per me, quando gareggiavo. Sapeva che dovevo fare due giri di pista, ma sul resto non è mai entrato nel merito. Il punto credo sia proprio questo: a tutti veniva naturale fare quello che oggi non lo è più. I segnali sono tanti. E sono seri. Bisogna invertire la rotta".