Ossa umane a Porto Recanati, la mamma di Cameyi: "Prego che nel pozzo non ci sia lei"

I resti trovati sarebbero della 15enne indiana scomparsa nel 2010. Si scava per il tezo giorno

La scientifica scava ancora sul luogo del ritrovamento (foto Demarco)

La scientifica scava ancora sul luogo del ritrovamento (foto Demarco)

Porto Recanati, 30 marzo 2018 - Si scava per il terzo giorno consecutivo nel pozzo degli orrori di Porto Recanati, dove finora sono stati trovati circa 50 frammenti di ossa riconducibili probabilmente a due corpi (VIDEO). Uno potrebbe essere quello della 15enne bengalese Cameyi Mosammet, scomparsa nel 2010.

L'ultima volta fu vista proprio all'Hotel House. Polizia scientifica e vigili del fuoco sono arrivati a una quota di circa 4 metri sotto il suolo. Al momento non risultano altri ritrovamenti degni di nota. Intanto si sta valutando se estendere o meno l'area delle ricerche.

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«Non ho mai voluto pensare che mia figlia fosse morta, ma ero sicura che non potesse essere tornata in Bangladesh, perché non aveva con sé il passaporto. Ora prego Allah che in quel pozzo non ci sia lei». Piange Fatema Begun, la mamma di Cameyi, era scomparsa il 29 maggio 2010 dopo essere uscita per andare a scuola, dove non era mai arrivata. Da allora la famiglia è stata colpita da un grave lutto, la morte del papà della ragazzina avvenuta due mesi dopo la scomparsa, e la mamma si è trasferita con i tre figli dalla casa fatiscente di via Marchetti a un appartamento di via Petrarca, vicino alla scuola media Marconi, proprio quella che frequentava Cameyi prima di essere inghiottita dal nulla. Mercoledì sera è stata proprio la preside Elisabetta Micciarelli, contattata dalla redazione di ‘Chi l’ha visto?’, a far sì che la famiglia fosse informata del macabro cimitero di Porto Recanati e dell’ipotesi che tra quei resti potessero esserci anche quelli della 15enne.

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A casa di Fatema è arrivata Silvia Mainardi, insegnante del linguaggio dei segni per il fratello 17enne, che era stata contattata dalla preside. «Gli investigatori non hanno informato la famiglia – dice l’insegnante – e sono andata io alle 22.30 di mercoledì». Da allora Fatema riprende in continuazione in mano la foto della figlia, piange e quando i giornalisti bussano alla sua porta, pensa all’annuncio definitivo che Cameyi sia morta, che i poveri resti di Porto Recanati siano stati identificati come quelli della sua ragazzina. «E’ lei? E’ morta?», chiede più volte tramite l’insegnante del linguaggio dei segni, dato che non parla italiano. Potrà essere solo l’esame del Dna a dare una risposta. Fatema ricorda che nel 2010 erano già stati prelevati campioni a lei e ai familiari. Dice di avere ancora i vestiti, i libri e gli altri effetti personali di Cameyi, in cantina. Quando era uscita di casa, quella mattina di otto anni fa, la ragazzina indossava pantaloni bianchi, borsa nera a tracolla (lo zaino era stato ritrovato a casa), maglietta bianca ma senza le bocche disegnate che compaiono invece sulla t-shirt ritrovata nel pozzo. Anche la scarpa bianca emersa dagli scavi di Porto Recanati non sarebbe quella della 15enne bengalese. Aveva un foulard e i familiari chiedono di sapere di quale colore sia quello ritrovato, per capire se fosse davvero di Cameyi.

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«Fatema è una persona disarmata – commenta la dirigente scolastica Micciarelli, che in questi anni è rimasta in contatto con la famiglia Mosammet perché i fratelli di Cameyi hanno frequentato la sua scuola – perché non parla l’italiano, ha perso il marito subito dopo la scomparsa della figlia e ha quindi vissuto molti lutti. E’ una famiglia sguarnita di strumenti culturali, molto poco attrezzata, anche per questo mi sento tanto vicina a loro e mi chiedo se, in altre circostanze, si fosse potuto fare di più. Non posso però accusare gli investigatori di non aver fatto bene il loro mestiere».

La professoressa Micciarelli non ha mai nutrito grosse speranze sul destino di Cameyi: «Ho sempre pensato che fosse morta il giorno che non era tornata a casa o comunque che non si fosse trattato di una fuga volontaria, né di una sparizione organizzata dai familiari. Se quelli di Porto Recanati fossero davvero i suoi resti, spero che le venga almeno data una degna sepoltura».