Louis Dassilva, unico accusato per l’omicidio di Pierina Paganelli, sta vivendo il paradosso di un sistema aggrappato a un frame.
Dopo la decisione della Corte di Cassazione, che ha rinviato al Tribunale del Riesame, le prospettive per il senegalese potrebbero finalmente cambiare. Ma può davvero un’ombra essere sufficiente per incastrare una persona?
Le telecamere di videosorveglianza, pur essendo uno strumento prezioso, non raccontano verità assolute. Pochi secondi, un’inquadratura limitata, un riflesso fuori posto, e ciò che sembra una prova inconfutabile si dissolve in un’illusione.

La CAM3, ormai la telecamera più famosa di Rimini, non mostra un delitto, non conferma un movente, non collega Dassilva in modo certo alla scena del crimine. Mostra solo una sagoma, un’impressione. E un’impressione non basta per rinchiudere dietro le sbarre un uomo. I mesi trascorsi sono già sei. C’è attesa per l’esperimento giudiziale, ma lo scenario resta sempre quanto meno opinabile.
A rendere il quadro ancora più debole è l’assenza di tracce genetiche di Dassilva. Il DNA, la prova regina in ogni indagine forense, non c’è. Non è sul corpo della vittima, sugli indumenti, né sugli oggetti analizzati. Si insinua persino l’idea che questa assenza sia la prova di un’abilità sopraffina da parte dell’indagato, ma questo è un ribaltamento pericoloso della logica giudiziaria. Il rischio è quello di trasformare l’indagine in una caccia alle streghe.
L’assassino di Pierina è sicuramente da cercare nel condominio di via del Ciclamino, ma la risposta al rebus va oltre la declinazione dell’indagine al singolare. Non era Dassilva ad avere il grilletto emotivo più forte per uccidere. Concentrarsi su un’unica direzione rischia di lasciare vuoti che non solo tradiscono la giustizia, ma permettono al vero colpevole, o ai veri colpevoli, di restare impuniti.