MARISA COLIBAZZI
Cronaca

Fermo, parla Maria Pia Castelli. "Oltre a scarpe e vino ‘vendiamo’ il territorio"

Intervista alla signora del vino di Monte Urano: "Chi viene rimane sbalordito e ci chiede di restare così: semplici e genuini"

Maria Pia Castelli

Fermo, 3 giugno 2018 - Parlare dell’artigianato fermano significa andare alla scoperta di un universo fatto di aziende micro, un pulviscolo di piccole stelle che brillano di luce propria e che, insieme, illuminano una economia che, nella provincia di Fermo, ha la sua spina dorsale proprio nelle mani, nella sapienza antica di custodi di tradizioni che non devono scomparire e che, infatti, si stanno tramandando alle giovani generazioni. In questo contesto, l’esperienza dell’azienda vitivinicola Maria Pia Castelli, a Monte Urano, è significativa. Intorno a questa azienda, a conduzione familiare, fondata da Erasmo Castelli (ora scomparso, di cui rimane il ricordo grazie al vino che gli è stato dedicato), nel 1998 comincia a prendere forma un progetto ambizioso, guidato dalla figlia, Maria Pia Castelli e dalla sua famiglia: il raccolto degli 8 ettari di vigne, tutte con vitigni autoctoni (montepulciano, sangiovese, pecorino, passerina, trebbiano e malvasia di Candia) sulle colline monturanesi, si trasforma in vini di fascia medio alta, molto apprezzati in Italia (dove viene distribuito il 90% delle 25mila bottiglie prodotte annualmente) e all’estero. «Ultimamente, la Regione Marche sta facendo molto di più per potenziare e sostenere questo settore – dice la titolare Maria Pia Castelli – ma quando siamo partiti non avevamo alcun tipo di appoggio. Ci mettevamo le mani in tasca, facevamo dei tour per far conoscere i nostri prodotti. Siamo andati ovunque e continuiamo a farlo».

Come si promuove un prodotto artigianale, di nicchia, nel Fermano?

«E’ importante capire che se non si vende il territorio, ma il singolo prodotto, non si va da nessuna parte. Noi lo abbiamo capito da tempo, ma non è un messaggio facile da far passare. Ci sono stranieri che si sono innamorati delle Marche e che amano partecipare a incontri in ristoranti tipici, meglio se in luoghi d’arte, così organizziamo dei tour tra storia e arte, che si concludono nel ristorantino in cui vengono proposti prodotti tipici e i vini. Ma non solo i nostri. Anche quelli di altre aziende del territorio».

I prodotti tipici uniti alle bellezze del territorio sono un binomio vincente.

«Le potenzialità ci sono e una volta che si riesce a far arrivare gli stranieri in queste zone, il resto va da sé. Non c’è nient’altro da fare perché si innamorano del nostro territorio».

Su quale sostegno può contare una piccola azienda artigiana per investire nella sua crescita o nella promozione?

«Non c’è molto. Stiamo investendo a Piane di Falerone, in una cantina dove abbiamo fatto un restauro conservativo, e dove faremo esperimenti nelle antiche cisterne che vi sono ancora custodite, con uve autoctone. Non sono riuscita a prendere un centesimo. Se anche ci fossero possibilità di accedere a finanziamenti, a livello di comunicazione e informazione, non riusciamo a essere raggiunti da queste opportunità. Eppure, insistiamo ad investire per i figli che sono orgogliosi del posto in cui vivono, che sono legati a questa terra. Ma, a volte, veniamo a sapere in ritardo che ci potevano essere opportunità di investimento».

Ritiene che per aziende più strutturate e più grandi sia più facile?

«Certo. Ma nelle Marche siamo soprattutto piccole e micro aziende. Ciò non significa che siamo sprovveduti. Noi pensiamo a dare qualità a quello che sappiamo fare, ma i nostri figli guardano anche altro, alla comunicazione, a diffondere quello che facciamo. Siamo riusciti a entrare nel mercato del Giappone grazie al web. Lavoriamo soprattutto con l’Italia, ma non disdegniamo nuovi mercati. Quando vado all’estero e cerco nuovi contatti, non ho bisogno di importatori che mi facciano i numeri, ma che sappiano apprezzare il mio vino, che vengano a conoscere dove viene prodotto, a vedere i nostri vigneti».

Partecipare a eventi fieristici nazionali comporta dei costi che, a volte, non sono facilmente sostenibili.

«Fino all’anno scorso, partecipavo al Merano Wine Festival, anche grazie alla Camera di commercio che ci dava un sostegno per far fronte ai costi di partecipazione. Per me, piccola azienda, andarci non sarebbe stato facile, per cui ben vengano aiuti in questo senso».

Nelle Marche ci sono interessanti occasioni di promozione dei vini?

«Ce ne sono in località che distano pochi chilometri l’una dall’altra. A che serve? Perché non si fa una iniziativa fatta bene per tutta la Regione? Siamo piccoli, e ancora adesso quando andiamo in giro siamo Fermo, Macerata, Pesaro. Che senso ha? Noi siamo le Marche. Punto. Siamo piccoli e se non ci uniamo, se ci facciamo la lotta tra di noi, siamo solo sciocchi. Non si capisce che se si va avanti insieme, se si partecipa agli eventi insieme, si abbattono i costi».

I produttori di vini sono in forte crescita, anche nel Fermano.

«Ce ne sono molti e io, in azienda, ho tutte le bottiglie del nostro territorio. Non ho problemi a farlo. I vini non sono tutti uguali. Molti si stupiscono di questa mia disponibilità ma vedo che in altre regioni in cui si producono vini, queste gelosie non ci sono e il territorio tutto ci guadagna in promozione, in immagine. Poi la clientela sceglie secondo il proprio gusto».

Dal vostro osservatorio, quanto sono conosciute le Marche in generale, il Fermano in particolare?

«Tutti quelli che sono capitati nelle Marche sono rimasti sbalorditi. Dicono che è una regione dalle potenzialità enormi, di cui non ci rendiamo conto. Basta guardare nel Fermano: in pochi chilometri abbiamo la bellezza dei Sibillini, borghi splendidi e unici e il mare. Poi accade anche che molti stranieri ci consigliano di non insistere più di tanto nella promozione, per il rischio che corriamo di snaturarci, di diventare troppo commerciali, di perdere quella genuinità, quella semplicità, quegli odori che sono i nostri punti di forza».

In una provincia come Fermo, la piccola dimensione è nel contempo un valore aggiunto e un limite. Su cosa bisognerebbe puntare per far emergere il buono del mondo artigiano?

«Bisogna credere tantissimo in quello che si fa, ci vuole una passione enorme per il territorio, la volontà di restare e tanta caparbietà andando avanti facendo quello che sappiamo fare bene, con la massima qualità. Ci deve essere un profondo senso della territorialità, più coesione tra di noi. Sono convinta che se il territorio è conosciuto, se lavora, lavoriamo tutti».

Oggi, vista la crisi calzaturiera, sono in molti a insistere sulla necessità di diversificare le produzioni. Che ne pensa?

«Che è vero, ma abbiamo già di tutto. Giovani che producono zafferano, olio, pasta, passate di pomodoro, erbe officinali, Sono ragazzi laureati che si sono cimentati in queste attività, che riscoprono produzioni antiche. La diversificazione che stiamo registrando nel nostro territorio, ci sta facendo capire che i giovani non sono bamboccioni. Soprattutto, sanno dialogare tra di loro, sanno fare rete».

Sono utili gli stage per avvicinare i ragazzi a tutto ciò che è il mondo dell’agricoltura?

«Sì, ma se fatti in una certa maniera. All’Agraria di Montegiorgio hanno accettato di organizzare gli stage in modo diverso, per cui i ragazzi imparano qualcosa del mestiere. Ci è capitato di richiamare alcuni di loro, dopo la scuola, perché sapevamo di poter contare su di loro».