
"Cosa vuol dire pedofilia? Rivolsi la domanda al mio avvocato dopo essere stata accusata di abusi, perché non sapevo nemmeno cosa significasse quella parola", racconta Roberta Barelli, i cui due, dei tre figli, vennero allontanati da casa nel ‘97. "Non li ho mai più rivisti", racconta nella sua casa di Poggio Rusco, dove abita da ormai 21 anni, da quando ‘emigrò’ da Mirandola nel Basso mantovano "per evitare che mi togliessero anche Giada, oltre che Melania e Alessandro (nomi di fantasia)". Una storia, quella di Roberta, 50 anni, che ha dell’incredibile, "perché i miei due figli vennero periziati e non risultarono mai abusati, e io venni assolta", ma che s’incrocia, per una sfortunata coincidenza di date, con la ‘vicenda pedofili’ della Bassa modenese. Oggi Roberta è una mamma "felice per metà. Giada mi adora e io adoro lei, ma ho perso gli altri due figli, e forse per sempre". La sua drammatica storia ha inizio quando i due figli hanno rispettivamente 2 e 5 anni. "A quel tempo ero operaia in una azienda biomedicale e abitavo assieme ai miei genitori, e al mio ex marito. Stavo vivendo un periodo di sbandamento e un bel giorno mi ritrovai gli operatori dei servizi sociali in casa. Mi dissero che non potevamo più tenere i bambini e che sarebbero tornati a casa dopo alcuni mesi, il tempo necessario affinché io e mio marito ci curassimo. Mi opposi, dissi che c’erano i miei genitori, in veste di nonni, a potersi occuparsi di loro con amore, ma nulla. I bambini vennero presi in cura dai servizi sociali dell’Ausl di Mirandola. Il 17 ottobre ’97 vennero trasferiti: uno al Cenacolo Francescano, l’altra in una casa famiglia. Da quel giorno, una volta a settimana, mi era consentito visitarli. I miei figli però non tornarono mai più a casa. Non solo, gli incontri si interruppero improvvisamente e seppi che erano stati dati in affido".
Nel frattempo Roberta, nel ’98, dopo la separazione incontra Michele, suo attuale marito, e resta incinta di Giada, che nasce nel ‘99. "La decisione di scappare a Poggio Rusco, in Lombardia, la presi dopo che i servizi sociali mi preannunciarono, vista l’accusa di pedofilia, che sarei stata privata della mia bambina dopo il parto. L’infamante accusa era partita da una fantasia della mia primogenita. Mentre il padre affidatario sfogliava una rivista, la bambina puntò il dito su alcune foto del Lago Maggiore. E’ vivo o morto quello che ha fatto gli scatti?", chiese. Il padre s’insospettì, raccontò il fatto a una psicologa e da lì parti l’accusa di pedofilia nei miei confronti, perché nel frattempo Melania dichiarò di essere stata abusata nel cimitero di Massa. Io – conclude Roberta – che nemmeno sapevo il significato della parola ‘pedofili’ mi ritrovai a processo con i genitori dei ‘Diavoli della Bassa’. Devo ringraziare – prosegue – il medico dell’ospedale di Mantova, che protesse me e la bambina, e i servizi sociali lombardi che credettero alla mia innocenza. Senza il loro aiuto avrei perso anche Giada. Melania, purtroppo, è ancora convinta di aver partecipato ai riti al cimitero di Massa".
v. bru.