Al Pavarotti c’è l’inimitabile ’Balkan Orchestra’

Il quotato ensemble internazionale si esibirà domani alle 20,30, il fondatore è il fanese Schirosa: «La musica va oltre le differenze»

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Nei circoli della Barcellona più colta e universalistica, per scaldarti il cuore e preservarti da talent e festival kitsch, come primo viatico non è infrequente che ti propongano il live esplosivo della Barcelona Gipsy BalKan Orchestra, fondata nel 2013 dal fanese di radici lucane Mattia Schirosa (fisarmonica). Che è musica ancestrale nonché laboratorio psicologico e sociale esportati sui palchi del mondo: vibrazioni catalano-iberiche mescolate a quelle balcaniche, greche, italiane, russe e mediorientali, fino a lambire il jazz manouche, il rockabilly e le «finesse» degli idiomi classici e cameristici. Ensemble che domani alle 20,30 sale sul palco del Teatro Pavarotti per sfogliare il disco Avocanto, parte dello show «Nova Era» acclamato in più di 35 paesi, di cui fanno parte il francese Julien Chanal (chitarra), il serbo Ivan Kovacevic (contrabbasso), il greco Stelios Togias (percussioni), i catalani Dani Carbonell (clarinetto) e Pere Nolasc Turu (violino), l’ucraino Oleksandr Sora (violino) e Margherita Abita, giovane sciantosa di recente acquisizione, siciliana delle Egadi.

Mattia, è l’ennesima «vittima» della fatal Barcellona, punto di affluenza di tutto, mare, montagna e musica che viaggia allo stesso modo della gente?

«’Vittima’ in qual che modo privilegiata. Qui ci sono capitato per esplorazioni personali dopo una laurea al Politecnico di Torino come ingegnere del Cinema e del Multimedia, con tesi sulla ’riproduzione del paesaggio sonoro di Porta Palazzo’. Ho vissuto anche a Bologna, a Parigi e nei sobborghi di Londra».

Il nome dello spettacolo vi aggancia al futuro.

«’Nova era’ in esperanto _ nostra lingua ufficiale_, tappa del BgKo Italian Tour, indica che la sopravvivenza culturale affidata alla musica va oltre le differenze. Senza dimenticare la lezione del passato: l’ultimo album, Avocanto, sta infatti per musica tramandata dagli avi».

I paesi che vi hanno accolto con più curiosità?

«Serbia, Turchia ex Jugoslavia, Grecia, Romania, dove questa musica è attuale. Che per noi è motivo di grande soddisfazione. Anche negli States abbiamo fatto dei sold out ma è stata l’Italia la culla del progetto».

Le città dal feeling più contagioso?

«Torino, Trieste e Napoli. A Bologna in piazza Verdi a luglio c’è stata una nottata dionisiaca, molto speciale, una connessione con il pubblico catartica. Come in Salento nella Notte della Taranta. Un po’ di resistenza l’abbiamo riscontrata nelle istituzioni e negli enti teatrali».

Sono all’ordine del giorno gli inciampi nella convivenza di una band spalmata su più culture?

«Diciamo che tutto è agglutinato dalla dolcezza della musica, ma è scontato che tra italiani e spagnoli ci si intenda subito a meraviglia. Tanto che ho sposato una catalana, Sandra Sangiao, cantante fino a due concerti fa del gruppo, incinta, sostituita da Margherita. La differenza culturale è più marcata nella sala prove. Di un belgradese non capiamo la lotta continua e lui non capisce la nostra «frivolezza»».

Progetti nuovi? «Un repertorio che uscirà nel quinto disco a settembre. Rielaborazioni del materiale che si spande dalla Russia alla Turchia, in linea col nostro dna di musicisti jazz e classico-cameristici».

La canzone con cui vorreste autocelebrarvi?

««Dall’Ebro al Danubio» che dà il nome al penultimo disco».