"App Immuni, il problema privacy è evidente"

Colajanni, docente di Sicurezza Informatica: "Chi gestirà i server? Come saranno memorizzati i dati? Inutile se non sarà obbligatoria"

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Ancora non si sa quando sarà operativa, ma la app ‘Immuni’ sta già scatenando un dibattito infuocato, tra chi teme per la propria privacy e chi, al contrario, la ritiene fondamentale per scongiurare nuovi focolai da Covid-19. L’applicazione per tracciare i contatti e i movimenti delle persone, viene considerata una priorità dal governo, anche se sono tante le incognite sulla sua obbligatorietà e funzionalità. Esprime le sue perplessità il professore Michele Colajanni, docente di Sicurezza Informatica all’Università di Modena e Reggio Emilia, nonché direttore della Cyber Security Academy.

Quali limiti rileva nell’impostazione della discussa app Immuni?

"Se l’app non è obbligatoria, non può essere utile. E per essere utile dovrebbe essere sia obbligatoria sia integrata con un’analisi a tappeto delle condizioni sanitarie della popolazione. Ma questa seconda opzione sarebbe un’azione talmente invasiva dei diritti costituzionali degli italiani da dover essere approvata dal Parlamento con gran parte dell’opposizione e non promossa da un singolo ministero. La terza ipotesi della non obbligatorietà con limiti ai movimenti è stata ritrattata con apprezzabile rapidità".

Come la mettiamo con la privacy?

"Il problema va ben oltre la riservatezza sulle condizioni di salute del singolo, in contrasto con la necessità di conoscenza nell’interesse superiore della società. Nell’odierna situazione di pandemia, tutti sarebbero giustamente a favore dell’interesse nazionale. Stiamo parlando della possibilità di localizzare decine di milioni di cittadini in una democrazia senza alcuna garanzia sull’efficacia di una tecnologia così invasiva. E poi mi preoccupa l’eccessiva concentrazione su Immuni, mentre i maggiori problemi di privacy non sono insiti nell’app quanto nei server che raccoglieranno i dati. Deve essere reso assolutamente chiaro come saranno memorizzati questi dati, dove, con quali garanzie di sicurezza, chi vi potrà accedere e per quali finalità, quali saranno gli amministratori di questi computer e chi vigilerà sul corretto comportamento".

Si possono studiare alternative?

"È una domanda oggettivamente molto difficile. Tutti i Paesi democratici stanno cercando una soluzione, ma trovano difficoltà proprio perché sono democrazie. In generale, non si dovrebbe mai partire dalle tecnologie, ma dalle finalità che si vogliono raggiungere ed essere molto trasparenti con gli italiani. Tutti condividiamo il desiderio di ricominciare a vivere. Quindi, prima di tutto servono analisi per sapere chi può essere dannoso per gli altri e chi no, e differenziarne i comportamenti. Le tecnologie informatiche vengono dopo. E poi, diciamoci la verità, per muoverci tutti usiamo almeno le mappe degli smartphone. Forse è il caso che i governi europei sotterrino l’ascia di guerra della privacy e stabiliscano una tregua con i grandi provider digitali per condividere, per un periodo limitato, questi dati a pro di un bene comune".

L’emergenza ha accelerato l’alfabetizzazione generale del Paese?

"Se dovessi individuare un unico elemento positivo in questa tragedia che stiamo vivendo è proprio l’accelerazione digitale. La rivoluzione viene da lontano, ma il nostro Paese, a livello di aziende e ancor più di pubblica amministrazione, ha cercato di posticipare qualsiasi processo rinviabile. La seconda manifattura europea, il terzo Paese per Pil si è ritrovato a essere terzultimo rispetto al Desi, l’indicatore di maturità digitale dei Paesi europei. Spiacevole. La pandemia, imponendoci lavoro, didattica, riunioni, comunicazioni a distanza, ci ha fatto capire che l’informatica è fondamentale quanto l’energia elettrica, e ci ha fatto scoprire anche realtà positive. Dal punto di vista infrastrutturale, le telecomunicazioni hanno retto benissimo. Dopo il personale della sanità, i complimenti vanno ai provider che ci hanno reso la quarantena più sopportabile. I giovani hanno insegnato ai genitori. E i lavoratori più alfabetizzati hanno aiutato i colleghi".