"Dad? Strumento utile, ma non c’è visione"

Minerva (Digital Education, Unimore): "Chiamatela piuttosto ’didattica intelligente’. Questa crisi è affrontata con l’approccio di 30 anni fa"

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di Alberto Greco

"Desidererei che non si parlasse più di didattica a distanza o didattica in presenza. Ma di didattica intelligente".

E’ categorico il professor Tommaso Minerva, presidente del corso di laurea in Digital Education dell’Università di Modena e Reggio Emilia, da anni impegnato attraverso il centro interateneo Edunova nella progettazione e gestione di progetti di e-learning. Dopo la bocciatura da parte dell’agenzia di valutazione del sistema educativo-scolastico in Italia Invalsi della Dad, ossia dell’insegnamento distanza, ha deciso di uscire allo scoperto. A convincerlo ad esternare il suo sfogo affidato a Facebook sono i timori che la nuova variante Delta possa mettere a repentaglio la ripresa dell’università in presenza e, ancor più, che non si sia fatto tesoro degli errori dei due semestri passati 202021 e un nuovo ricorso alla Dad sia riproposto negli stessi termini e modalità fallimentari.

Lei è uno statistico, quanto ritiene alta la probabilità che la variante Delta possa condizionare il ritorno in presenza a settembre?

"Spero di essere nel torto ma la probabilità che la vita sociale e le attività didattiche possano di nuovo essere condizionate nel prossimo autunno è davvero molto alta. Tutti i modelli e le previsioni vanno nella direzione di una forte ingravescenza del quadro epidemiologico".

Lei critica la bocciatura della Dad. Si spieghi.

"Molte cose non hanno funzionato. Dopo il primo semestre di vera emergenza educativa è mancata la riflessione, la progettazione di una nuova ’normalità’ che – davvero – fosse una integrazione tra presenza fisica e presenza online (non la chiamo distanza), la ricerca di nuove modalità di valutazione che non fosse l’approccio inquisitorio di esami bendati o con le mani alzate. Dove si è seguito questo modello (in molte università, anche nella mia) le aule sono rimaste vuote. Il docente faceva lezione a 4-5 studenti in aula e qualche centinaio collegati in video-conferenza. E’ mancata la visione, la capacità di trovare nella crisi e nella emergenza una idea di futuro in cui tra presenza-fisica e presenza-online non ci fosse una contrapposizione. E’ prevalsa una deriva tecnocratica. Lo strumento senza una idea".

Come dovrebbe essere organizzata una efficace didattica a distanza che salvaguardi la voglia degli studenti di partecipare in presenza la vita dell’università?

"Desidererei che non si parlasse più di didattica a distanza o didattica in presenza. Ma di didattica intelligente (per favore non chiamatela smart). Una didattica in cui l’aula, i laboratori, le aule virtuali, i canali social, il panino al bar, i video, i docenti, gli esperti, i podcast rappresentano un unico grande cassetto. Si utilizza lo strumento migliore in funzione degli obiettivi didattici, dei vincoli, delle risorse, delle competenze, delle infrastrutture. Rappresenta uno sforzo enorme e una visione complessa. Le università (molte, quasi tutte) hanno scelto però la strada della semplificazione tecnocratica o del feticcio del ritorno in presenza. Hanno affrontato una crisi epocale con gli strumenti (culturali) e una visione di 20 o 30 anni fa dimenticando che in questi 20 anni c’è stato un vivace dibattito culturale, esperienze e competenze capaci di fornire chiavi di lettura più moderne e inclusive".

Ci sarà un futuro per l’università in presenza che abbiamo conosciuto fino ad ora o il suo suggerimento per una nuova didattica è solo un fatto contingente?

"Non è un fatto contingente. Era già un processo in atto molto evidente nelle tante esperienze internazionali. Meno in Italia. La pandemia lo ha vorticosamente accelerato. Lo ha inserito in un frullatore. Purtroppo, facendo emergere le aberrazioni. Il rischio è un riflusso, un rigurgito che ci riporti indietro di 30 anni. Questo, davvero, gli studenti alla lunga non potrebbero più accettarlo. E a rimetterci sarebbe il paese".