"Ecco come il Covid ha colpito tanti anziani"

Una ricerca di Unimore che ha attirato l’attenzione di una rivista del gruppo Nature ripercorre le dinamiche dell’infezione in relazione all’età

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di Alberto Greco

Ricercatori modenesi di Unimore, guidati dall’immunologo professor Andrea Cossarizza, e coadiuvati dalla ricercatrice dottoressa Sara De Biasi e dal dottor Domenico Lo Tartaro, ha portato un altro mattone nella comprensione della origine della forma di infezione da Sars-CoV-2, che spesso ha avuto ed ha gli esiti più infausti dopo l’infezione con il coronavirus.

Si è infatti concretizzato uno studio iniziato nel marzo 2020 che, per la prima volta, descrive le principali caratteristiche immunitarie delle cellule presenti nel sangue e nei polmoni di pazienti anziani affetti dalla forma più severa di Covid-19. Lo studio apre la strada alla realizzazione di farmaci e cure che scongiurino l’evoluzione letale della infezione da Sars-CoV-2 e a "personalizzare ancora di più le terapie" afferma Cossarizza. "Va sottolineato che il nostro studio – racconta Cossarizza – è iniziato nel primo anno della pandemia, quando ancora non c’erano i vaccini, il cui uso ha permesso di salvare milioni di persone, soprattutto quelle anziane e fragili. Ma l’attenzione non deve calare, dato che ora abbiamo a che fare con una variante molto infettiva, Omicron BA.5, e purtroppo vediamo quadri molto severi nelle persone che non si sono vaccinate". Fin dall’inizio della pandemia era stato osservato che l’età avanzata era un importante fattore di rischio per lo sviluppo della forma severa della malattia, quella che in tanti casi ha portato all’intubazione o alla morte del paziente. Tuttavia, c’erano pochi dati disponibili sulle cause molecolari delle alterazioni immunologiche. I ricercatori modenesi, pertanto, coadiuvati da medici e ricercatori di Unimore e dell’Aou, tra cui i professori Cristina Mussini e Massimo Girardis, hanno analizzato 64 pazienti con grave infezione da Sars-CoV-2, dei quali 31 con età maggiore di 70 anni e 33 sotto ai 60 anni, per capire meglio il ruolo giocato dal processo di infiammazione cronica (definito ’inflammaging’) che si associa all’età.

La quantificazione di oltre 60 molecole solubili e l’identificazione delle principali sottopopolazioni dei globuli bianchi, a livello di singola cellula, hanno permesso di capire che i pazienti anziani con Covid-19 grave hanno differenti livelli plasmatici di decine di citochine sia infiammatorie, sia anti-infiammatorie, diverse proporzioni di cellule mononucleate del sangue periferico, e una diversa qualità di quelle cellule T che aiutano tutti i componenti del sistema immunitario e, in particolare, aiutano la maturazione delle plasmacellule, che sono le forme mature dei linfociti B deputati a produrre anticorpi. Inoltre, è stato osservato che i polmoni di soggetti anziani deceduti per Covid-19 sono infarciti di macrofagi attivati che pochi giorni dopo l’infezione promuovono la deposizione di collagene e la conseguente fibrosi. Questo fenomeno è molto meno marcato nei polmoni di pazienti più giovani, dove però gli aspetti coagulativi prevalgono su quelli fibrotici. Questo dimostra che il danno polmonare che porta al decesso ha diverse patogenesi e cause che dipendono in parte dell’età del paziente. "Il nostro studio – spiega De Biasi – sottolinea l’importanza dell’infiammazione nella risposta a Sars-CoV-2 e suggerisce che l’infiammazione, unita all’incapacità di montare una risposta antivirale adeguata, potrebbe esacerbare la gravità della malattia e il peggior risultato clinico nei pazienti anziani". Il valore scientifico dello studio è confermato dall’interesse della rivista Communications Biology del gruppo di Nature: ne ha dato ampio risalto.