"La mia infanzia in Russia nella città segreta"

La conduttrice televisiva Stefanenko stasera al Memoria Festival presenterà il libro sugli anni vissuti nella impenetrabile Unione sovietica

"La mia infanzia in Russia nella città segreta"

"La mia infanzia in Russia nella città segreta"

di Maria Silvia Cabri

Il ‘Memoria Festival’ di Mirandola si pone quale momento di condivisione di conoscenza, storia e ricordi, talvolta anche molto personali. È così per l’attrice e conduttrice televisiva Natasha Stefanenko che, stasera alle 21, al Parco della Memoria, a conclusione della kermesse, presenterà il suo libro ‘Ritorno nella città senza nome’. L’autrice russa è nata in un luogo degli Urali non segnato sulle carte geografiche, denominato solo da una sigla e costantemente sorvegliato: il motivo, e tutti i misteri di quella città, li racconterà al pubblico, sul filo di una linea sottile fra realtà e finzione, autobiografia e thriller.

Quanto è personale questo libro?

"Diciamo ‘largamente autobiografico’: l’85% di quello che ho scritto è vero. Solo le cose più avventurose non sono successe. O meglio, in verità alcune sì".

Perché ha deciso di scriverlo? "Da quando sono arrivata in Italia, bel oltre dieci anni fa, ho realizzato che il mio passato è ‘curioso’, particolare. Ogni volta che ne parlavo le persone ne restavano così colpite… Così, con l’aiuto di mio marito Luca che scrive molto bene, ho iniziato a buttare giù i ricordi fino a sentire la voglia di condividerli mediante un romanzo".

E cosa narra nel libro?

"Tra verità e finzione, è uno spaccato della mia vita e al tempo stesso è uno squarcio sulla storia dell’Unione Sovietica all’alba del suo sgretolarsi, nei primi anni Novanta. Mi soffermo su due anni, 1991 e 1992; in parte è ambientato a Mosca e in parte a Sverdlovsk-45, la ‘città senza nome’".

Che cos’è Sverdlovsk-45?

"È la mia città. Una città che insieme a molte altre è nata durante la Guerra Fredda. Era ‘segreta’ perché lì si produceva uranio altamente arricchito per le testate nucleari. Non esisteva sulla carta geografica e non aveva un nome, ma soltanto un numero, 45. Il nome che viene prima, Sverdlovsk, è quello della città più vicina, quella che ora si chiama Ekaterinburg. Dista 250 chilometri. La mia era la numero 45, c’era anche la 44, la 46…". Che posto era?

"La città era circondata da mura, filo spinato, guardie armate. Ci voleva un pass per entrare che solo i residenti avevano; per noi era più importante del passaporto. Gli stranieri non potevano entrare. Detto così può ‘spaventare’, ma per noi era normale, nel senso che per anni ho pensato che tutte le città del mondo fossero così".

Come si viveva nella città senza nome?

"Ho ricordi meravigliosi della mia infanzia, era un posto ‘paradisiaco’, c’era una bellissima atmosfera, era piena di giovani coppie e tanti bambini. Nei negozi c’era tutto: i cibi migliori, le scarpe e i vestiti italiani. Mangiavamo caviale e frutta esotica, si poteva uscire alle due di notte senza avere paura. Ci stavo bene e ‘mi bastava’: mi sentivo più libera lì rispetto a quando alla fine degli anni Novanta sono andata a Mosca a studiare. E’ stato uno shock".

Cosa intende?

"Quando abbiamo avuto la libertà non sapevano cosa significasse, è stato molto disorientante: prima avevamo certezze, poi d’improvviso tutto è crollato. Poi ovviamente ci si abitua e adesso vivo da protagonista la mia vita in Italia e noi tutti abbiamo capito cosa significa libertà".