Matteo Magnoni, 37 anni, ha la faccia di uno che ha attraversato il deserto a piedi, e che ancora, quando ne parla, sente pungere la gola. La forza di farlo gli è venuta quando ha letto della storia del piccolo di 2 anni e 7 mesi, in affido temporaneo praticamente dalla nascita, e che ora un giudice ha stabilito debba rientrare nel suo nucleo di origine, dove la madre biologica e i suoi due genitori anziani, desiderano crescerlo. Anche Matteo è stato un bambino in affido: ha vissuto fino a 6 anni nell’angoscia di una famiglia che definisce "inadeguata", con una madre "senza cultura, senza formazione", capace di piccole e grandi crudeltà delle quali probabilmente nemmeno si rendeva conto. "Ma se fossi vissuto nelle sue condizioni – dice malgrado tutto, oggi – forse neanche io avrei saputo fare di meglio".
Fino ad 11 anni Matteo ha girato tra case e affidi: l’estate al mare, con delle famiglie che gli facevano passare le vacanze, e l’inverno di nuovo a casa, in una cameretta spesso chiusa a chiave, in un lettino sporco di pipì che nessuno puliva, senza mai una tenerezza. "Ogni distacco era per me una ’amputazione emotiva’ – dice Matteo –: tornavo a casa in lacrime, perché attraverso queste famiglie ’temporanee’ capivo cosa fosse un genitore, capivo il senso di una famiglia. Quello che non capivo era il motivo del mio ritorno, ogni volta, a casa. Per me significava che non ero abbastanza per quelle famiglie, non ero accettabile".
Dopo le prime prove di "affidamento", a Matteo viene data la possibilità, per qualche ora al giorno, di essere seguito da un’educatrice, che lui ricorda con affetto: "Si chiamava Elisabetta - racconta - e con lei si era creato un bellissimo legame, era un’educatrice molto giovane. Le avevo anche chiesto di poter andare a vivere con lei". Poi, a 10 anni, quella famigli arriva. Una famiglia di Pesaro, con un figlio più grande. "In quel momento dentro di me si è rotto qualcosa – dice –. Non sono stato un adolescente modello, lo ammetto. Improvvisamente ero in una famiglia colta, benestante. Ma ogni due settimane dovevo tornare a incontrare la mia vera madre, a cui non importava niente e continuava a fare la sua vita a prescindere da me, come aveva sempre fatto. Era per me insopportabile. Non sapevo se sentirmi un ragazzo fortunato o sfortunato. Poi ho capito che la vita non è questione di fortuna o sfortuna, ma di come si reagisce a quello che ti succede. Io non accettavo regole, volevo fare tutto senza dar conto a nessuno. Ricordo che quando compii 18 anni il mio padre affidatario mi mostrò un foglio con scritto che ero loro figlio, a prescindere da tutto, ma che però, in casa, c’erano delle regole da rispettare. L’ho firmato ad occhi chiusi".
Vent’anni dopo Matteo è qui: ha vissuto ogni giorno accanto al suo dolore, si è fatto aiutare, ha trovato il modo di contenerlo. "Con i bambini ho un rapporto bello e istintivo – dice –, mi sembra di capirli e loro entrano subito in sintonia con me. Con gli adulti a volte faccio fatica, tendo a scappare dalle situazioni dolorose". Un dolore sezionato in ogni sua parte, ma questo non significa che la ferita sia cicatrizzata. E quella sensazione alla gola è tornata leggendo la storia di un bambino di nemmeno 3 anni. "A volte ho l’impressione – dice – che nel prendere queste decisioni non si consideri abbastanza cosa certe scelte comportino nel bambino. Ho l’impressione che si valutino troppo gli aspetti tecnici, e non altrettanto quelli emotivi. Non provo rabbia, ma incredulità".