
Crac ex Arimar, chieste condanne per 15 anni
La società era naufragata nel novembre del 2016 con un fallimento decretato dal tribunale di Ravenna a fronte di un passivo stimato in circa 20 milioni di euro maturato nel contesto di un volume di affari di 35 milioni. La Marittima spa (e ancora prima Arimar spa) aveva fino a quel momento commercializzato imbarcazioni a motore e a vela, zattere di salvataggio, motori marini, strumentazione elettronica navale e arredamento nautico. Un colosso di settore con sede a Montaletto di Cervia capace di ottenere appalti anche con la Marina Militare.
Per quel crac, inquadrato come bancarotta fraudolenta, ieri mattina il Pm Daniele Barberini ha chiesto 6 e 5 anni di condanna marito e moglie, forlivesi, rispettivamente presidente e vicepresidente della fallita spa. I due, inizialmente, a marzo 2019 erano finiti in carcere su ordinanza di custodia cautelare. Complessivamente la coppia è accusata di aver distratto somme per 9 milioni di euro tra il 2013 e il 2015, in quella che il Pm ha definito una "sistematica opera di spoliazione del patrimonio", messa in piedi anche grazie a una società tunisina ricondotta ai due imputati, "una sorta di cassaforte familiare". Da verifiche fiscali erano emerse le prime contestazioni di condotte fraudolente, legate appunto allo scenario tunisino. In buona sostanza, marito e moglie avrebbero agito per delocalizzare risorse finanziarie verso l’impresa africana attraverso il pagamento di prestazioni per lavorazioni su scafi non adeguatamente documentate e prive di valide ragioni economiche. E subito dopo la verifica, i vertici societari avevano presentato domanda di ammissione al concordato preventivo, poi respinta dal tribunale di Ravenna. Nello stesso periodo, i due avrebbero tentato di svuotare le casse societarie per altri 7 milioni e 600 mila euro con prelievi di contante, emissione di assegni circolari e richiesta di bonifici a favore di una società con sede a Dubai. Operazioni che in parte non erano andate a buon fine perché nel frattempo le banche erano state informate.
Secondo il difensore della coppia, avvocato Nino Giordano Ruffini, l’accusa "non è riuscita a dimostrare quale sarebbe stato il tornaconto personale che la coppia avrebbe tratto da questa vicenda". Inoltre, avrebbe "sorvolato su sui rapporti con l’impresa tunisina, che era soggetta a revisione". Al punto che "quando l’amministratrice si recò in Tunisina per verificare la situazione della controllata, non riuscì nemmeno a entrare nella sede e fu chiesto l’intervento della forza pubblica". Secondo il difensore, "prelievi e circolazione di denaro" non sarebbero stati dimostrati, così la tesi accusatoria che ciò possa essere avvenuto "sotto falso nome". La difesa, secondo cui, "non vi fu alcun malaffare", respinge l’accusa di avere trasferito somme "per creare società-scatole a scopo distrattivo". "L’operazione di acquisto" nel 2013 della società tunisina" "fu una corretta operazione strategica e di respiro imprenditoriale, che non va letta col senno di poi". E "dato che in ballo c’erano le famiglie di 300 lavoratori", il presidente in fase di concordato "non solo non fuggì, come ritiene la Procura" ma ci rimise di tasca propria, mettendo a disposizione dei creditori un milione di euro di un’altra società, non potendo sapere che nel frattempo le banche ne avevano già aggredito il patrimonio". Con loro rispondeva anche un legale, che inviando un messaggio con allegato un Iban e la richiesta di 2 milioni di euro avrebbe concorso nella distrazione denaro. Per lui il Pm ha chiesto 4 anni. Per il suo difensore, avvocato Massimo Brazzi, quella somma serviva a pagare spese legali di un altro studio, mentre l’avvocato imputato "non ha avuto alcun ruolo nel fallimento della Marittima".