La zuppa inglese? È il miglior tiramisù che possa esistere

di Paolo Casadio

I tempi non inducono a eccessivi ottimismi, e poi sostengo che l’ottimismo produca solo delusioni. Meglio un buon distaccato e difensivo pessimismo, che permette di prepararsi in anticipo alle sorprese della vita. Poi, certo, a volte scappa di mano e il confine con la tristezza è labile. In questi casi di sconfinamento ho una infallibile ricetta di famiglia: la “sópa inglēşa”, la zuppa inglese. Se è fatta come iddio comanda, è il miglior tiramisu del mondo. Il problema, ed è una ricchezza, è in quel “iddio comanda”, poiché esistono tante versioni di questo delizioso dolce quante le ipotesi sul perché del suo nome.

C’è chi ne sostiene la romagnolità raccontando esser stato il dessert preparato secondo i dettami di Lord Byron nei suoi soggiorni ravennati, e quindi la “zuppa dell’inglese” poi contratto in “zuppa inglese”. C’è chi rivendica le sue origini fiorentine, dove le servette delle famiglie patrizie raccoglievano i biscotti rimasti dalla consuetudine “inglese” di prendere il tè con le amiche, riciclandoli poi, inzuppati di alchermes, nella preparazione del dolce. C’è chi lo fa nascere a Ferrara, nel XVI secolo, come rielaborazione del trifle inglese; c’è chi ascrive all’utilizzo originale del rhum, liquore tipicamente inglese, la sua attribuzione geografica che, durante il ventennio fascista, dovette cambiar nome in “zuppa impero”: d’altra parte, quando si starnutiva occorreva dire “vittoria!” in luogo di “salute!”. Mille ipotesi, più o meno come le varianti della ricetta. A Bologna s’usa il pan di Spagna, qui ho visto la ciambella in luogo dei tradizionali savoiardi; in Toscana, scriveva l’Artusi, “in ragione del clima ed anche perché colà hanno avvezzato così lo stomaco, la crema si fa molto sciolta”. Questo è il bello del cucinare e rassomiglia al leggere: ciascuno lo declina a suo modo, nel miglior spirito creativo, senza muri e recinzioni.

E allora lode all’umile sópa inglēşa, dolce nato per le tavole povere: cioccolata in crema, crema bianca, savoiardi inzuppati nel folletto, ingredienti celebrati nei contrasti vivaci della zuppiera in vetro o distesi sul piatto. E il profumo, è’ parfómm, che da solo fa festa e bellezza e, come dice l’amico Roberto Matatia, "per noi romagnoli vuol dire casa, famiglia, tavolate con gli amici". Lavorarla è un rito, godersela è una tradizione immutabile, una bandiera piantata nella nostra terra: una bandiera di piacere.