ALESSANDRA CODELUPPI
Cronaca

Famiglia di Saman Abbas, i giudici: "Livello integrazione pari a zero"

Nelle motivazioni della sentenza, le valutazioni sulla vita di padre, madre e zio: tutti condannati. "Lei era relegata in casa, incapace di comunicare. Per i genitori il mondo esterno era corrotto"

Reggio Emilia, 4 maggio 2024 – “Il livello di integrazione degli imputati nel contesto sociale e culturale italiano deve reputarsi prossimo allo zero". È quanto scrive la Corte d’Assise nelle motivazioni della sentenza per l’omicidio della 18enne Saman Abbas, avvenuto il primo maggio 2021, in cui i genitori Shabbar Abbas e Nazia Shaheen sono stati condannati all’ergastolo e lo zio Danish Hasnain a 14 anni. I giudici Cristina Beretti e Michela Caputo rilevano "quanto profondamente sia radicata la prassi dei delitti d’onore in Pakistan, non a caso sanzionata legalmente solo dal 2016 e mai estirpata, ma anzi tuttora diffusissima". Circostanze per cui, secondo il tribunale, "sebbene non giuridica ed evidentemente ripudiata dal nostro ordinamento, la ‘norma culturale’ sottostante a queste pratiche sia, di fatto, concepita come vincolante in tali contesti".

Da sinistra: il padre di Saman, Shabbar Abbas, lo zio Danish Hasnain e la madre Nazia Shaheen, rimasta l’unica latitante del clan famigliare finito sotto la lente della procura di Reggio
Da sinistra: il padre di Saman, Shabbar Abbas, lo zio Danish Hasnain e la madre Nazia Shaheen, rimasta l’unica latitante del clan famigliare finito sotto la lente della procura di Reggio

E per spiegare perché negli imputati sia rimasta radicata questa convinzione, si dice che gli imputati non erano affatto integrati. Per la madre Nazia, si dice che "il dato è certo e palese": viene descritta "relegata in casa, incapace di comunicare in italiano e priva di qualsiasi contatto col mondo esterno, che sia lei sia il marito, nelle intercettazioni, danno prova di concepire come corrotto e degenere". Stesso discorso vale anche per il marito Abbas e lo zio Hasnain, "impegnati in attività lavorative solo perché uomini, ma che per il resto non risulta abbiano mai intrattenuto relazioni di sorta con persone estranee al loro contesto familiare". Sotto questo profilo, la Corte d’Assise richiama la Cassazione, secondo cui "il grado di inserimento dell’immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del Paese d’arrivo o il suo grado di perdurante adesione alla cultura d’origine, è aspetto relativamente indipendente dal tempo di permanenza nel nuovo Paese": da qui si trae la conclusione che "alcun influsso ha avuto il fatto di essersi trasferiti in un Paese dai tratti culturali ben distanti da quello di provenienza, essendo i tre soggetti rimasti del tutto impermeabili a qualsiasi condizionamento esterno".

Abbas era arrivato dal Pakistan una quindicina di anni fa, lavorando sempre nell’azienda agricola ‘Bartoli’ di Novellara, dimostrandosi molto serio e affidabile come ha testimoniato anche il titolare, per poi essere raggiunto nel 2016 anche dalla moglie e dai due figli. Del padre Abbas, pur non alleggerendo certo la sua responsabilità nella morte di Saman, si fa però un ritratto diverso: prima del delitto "questa stessa famiglia non aveva mai manifestato dati esterni allarmanti, indizio di condotte violente, intimidatorie o di altro tipo. In particolare i tentativi di ritrarre Abbas come padre violento e autoritario sono risultati tutti smentiti". Anche se poi i genitori sono rimasti "irrimediabilmente segnati" dopo la fuga in Belgio di Saman nel 2020. Si spiega poi perché non è stata riconosciuta l’aggravante dei motivi futili, ovvero spropositati, che la Procura sosteneva. Si parla di "convincimenti in loro profondamente e drammaticamente radicati", motivo per cui "la sproporzionata reazione allo stimolo, più che essere rivelatrice di un istinto criminale più spiccato, da punire con una pena più grave, è dovuta a concezioni particolari, non accettabili nè condivisibili - rimarca la Corte - ma che nel concreto li hanno portati ad annettere a certi eventi un’importanza di gran lunga maggiore di quella che la maggior parte della gente vi riconnette". Il pubblico ministero Laura Galli, titolare dell’inchiesta, e i giudici lo hanno definito entrambi delitto d’onore, ma per motivi diversi. Tra i moventi ipotizzati dalla Procura il rifiuto di sposare il fidanzato scelto dai genitori. Secondo i giudici, però, dal processo è emerso che non fu questa la causa dell’uccisione, ma la sua decisione di fuggire di casa.