REDAZIONE RIMINI

Il pescatore eroe lascia Lampedusa. "Non posso dimenticare quei morti"

Raffaele Colapinto salvò 20 persone nel naufragio che costò la vita a 366 migranti di Mario Gradara

Rimini: Raffaele Colapinto e un barcone di immigrati

Rimini, 4 luglio 2014 - Iin fuga dagli orrori dei naufragi. «Ho visto troppi morti, ne abbiamo salvati una ventina, ma troppi ci sono scivolati dalle mani finendo in fondo al mare, ragazzi dell’età di mio figlio. Sono cose che non si possono dimenticare». Fra due settimane torna a Rimini Raffaele Colapinto, storico pescatore riminese di origini lampedusane, che nell’aprile del 2013, dopo 35 anni di duro lavoro in Adriatico, era tornato con il fratello Domenico e i nipoti nella sua Lampedusa, a bordo del peschereccio di diciannove metri ‘Angela C’, intitolato alla memoria della madre. Pochi mesi dopo, la maledetta mattina del 3 ottobre, i Colapinto sono coinvolti, come altri pescatori di Lampedusa, in una delle più grandi tragedie marittime del Mediterraneo.

A mezzo miglia dalla costa dell’isola siciliana affonda un ‘barcone della morte’, proveniente dalla Libia e stipato all’inverosimile di immigrati somali ed eritrei. Che finiscono in mare. A decine vengono salvati dai pescatori, una ventina solo dall’«Angela C» dei Colapinto, che li tirano su a braccia, stipando la barca di morti e di vivi: nella tragedia perdono la vita 366 migranti, affogati a un passo dalla salvezza. Domenico, moglie e due figli, poco più di 50 anni, si massacra una spalla per salvare l’ennesimo naufrago, una ragazza semisvenuta che solleva da poppa a peso morto. «Altri, con l’età dei nostri figli, ci sono scivolati dalle mani, affogavano davanti a noi, finiti in fondo al mare», raccontano i fratelli in lacrime. Da quel giorno non riescono più a dormire. Domenico è quello che sta peggio: ha gli incubi, va avanti a sedute dalla psicologa e psicofarmaci. «Ora va meglio — racconta il pescatore — Sono stato otto mesi senza andare in mare, adesso un po’ ho ripreso, bisogna portare a casa qualcosa, anche se il braccio ferito non lo uso più come prima. Ma sono cose che non si dimenticano». Il fratello maggiore Raffaele, 66 anni, tra i pionieri della grande colonia lampedusana a Rimini, armatore del peschereccio, riesce a tornare a pescare. Ma il mare di Sicilia ormai ha cambiato colore per loro. Troppi cadaveri in mezzo a quelle reti. Troppo orrore.

«Torniamo a Rimini con la barca io, mio figlio Bartolo e i nipoti, qua non ci sto. Partiamo a fine luglio, ci mettiamo sulle 80 ore senza fare soste, se il tempo è buono». Perché questa scelta? «Volevo restare giù due o tre anni. Ma non c’è più il pesce che si pescava una volta — continua — ci sono tanti mesi di maltempo che ci tengono fermi in porto, ci sono troppi passaggi per mandare il pescato in continente, grossisti locali, poi Catania, poi Palermo. E quindi poco guadagno: meglio Rimini, dove ho la casa di proprietà, altri figli e nipoti. E poi troppi morti. Anche se con l’operazione ‘Mare Nostrum’ i profughi vengono portati direttamente in Sicilia, non più tutti a Lampedusa come prima».

Mario Gradara