Hikikomori Bologna, i racconti delle mamme. "Qualcosa in loro si è spezzato"

In città segnalati 103 casi di 'eremiti sociali'

La fascia più colpita è quella fra i 12 e i 18 anni di età

La fascia più colpita è quella fra i 12 e i 18 anni di età

Bologna, 15 marzo 2019 - Secondo il monitoraggio dell’Ufficio Scolastico Regionale – il primo del genere in Italia – sono 103 i casi di Hikikomori in provincia di Bologna (di cui 34 nel distretto cittadino). Ed eccetto sei casi, che riguardano studenti più giovani, tutti gli altri occupano la fascia 12-18 anni: si tratta di ragazzi senza apparenti problemi, che normalmente vanno bene a scuola e provengono da famiglie di livello medio-alto, ma che a un certo punto, improvvisamente, soffrono una profonda rottura interiore che li porta ad abbandonare i banchi e a ritirarsi in casa, eliminando i rapporti con l’esterno e concentrandosi spesso sulla tecnologia.

Eremiti o isolati sociali, come vengono definiti da educatori e studiosi, alle prese con un fenomeno ancora tutto da comprendere. Il nome è giapponese, perché è nel Sol Levante che questo disturbo ha cominciato a prendere piede, tanto che si dice ne soffra anche Masako Owada, la ‘principessa triste’, moglie del principe Naruhito.

Tuttavia, se in Giappone l’origine può essere legata alla particolare cultura del Paese, da noi le caratteristiche sono distinte: «È un’altra realtà, completamente diversa dalla nostra, dove una prima grande differenza è la maggiore tendenza femminile a questa autoesclusione», spiega Bruna Zani, presidente dell’Istituzione Minguzzi della CittàMetropolitana. Alla base di questo distacco sembra emergere «la vergogna di non essere all’altezza dell’opinione degli altri», unita a una profonda inadeguatezza al mondo che circonda questi ragazzi: «Ci vogliono dire qualche cosa, forse che il mondo che abbiamo preparato per loro non è quello che vorrebbero», conclude la Zani. 

Il racconto delle mamme

«Sono otto anni che cammino nel deserto». La voce di Maria (il nome, come tutti quelli che seguono, è di fantasia) si incrina, ma non si spezza quando per la prima volta racconta in pubblico il suo dramma quotidiano. Come lei, decine di altre madri si sono trovate all’improvviso a combattere contro un male nero e sconosciuto. Piovuto all’improvviso sui loro figli. «Fino a 16 anni era un ragazzo perfetto: sportivo, socievole, oltre le nostre aspettative, che già erano molto alte – racconta Antonia –: poi si è incrinato qualcosa, non abbiamo capito e insistevamo, lo caricavamo sempre di più, lui ci ha provato disperatamente, ma alla fine ha scelto di ritirarsi del tutto».

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La storia è sempre la stessa: «Una mattina mia figlia non si è alzata dal letto per andare a scuola, si è opposta con la forza e in un silenzio ostinato. I miei parenti erano increduli, io pensavo di aver sbagliato tutto e per non lasciarla sola ho anche rinunciato a lavorare. Dopo due anni, finalmente, si è aperta: ‘Mamma, mi sento inadeguata agli altri, al mio corpo’». O ancora: «Mia figlia era brillante, con una pagella perfetta, ma non veniva accettata dai compagni: così un giorno ha semplicemente smesso di andare a scuola, dove non riuscivano a capire la ragione di quelle assenze». Sedute con gli psicologi, terapie farmacologiche, eterne attese di fronte alle camere chiuse, dialoghi surreali con gli istituti che intimano di far tornare i figli, minacciando l’intervento del Tribunale dei Minori.

È una storia comune a tutte queste madri, ospiti di una commissione in Comune chiesta dal Pd Vinicio Zanetti e dalla M5s Elena Foresti. Per questioni di tempo non volevano farle parlare tutte, ma loro si sono opposte: «Siamo qui per essere ascoltate». D’altronde, è per questo che lottano da anni. «Abbiamo cominciato a conoscerci online, su un gruppo Facebook e ora siamo 1.400», spiega Elena Carolei, presidente dell’Associazione Italia Hikikomori Genitori onlus. In Italia ci sono già 40 gruppi di auto-aiuto, di cui 4 in Emilia-Romagna: «Abbiamo sviluppato competenze ed esperienze, è ora questo fenomeno sociale venga riconosciuto». Perché se i numeri sono ancora circoscritti, il fenomeno, invece, riguarda tutti, perché racconta la società in cui viviamo: «Non sono pigri o svogliati, anzi il contrario – prosegue la Carolei –: hanno un disagio forte dentro, di chi non riesce a stare dietro ai modelli narcisistici che vengono trasmessi e portati avanti».

Secondo il monitoraggio dell’Ufficio Scolastico Regionale – il primo del genere in Italia – sono 103 i casi di Hikikomori in provincia di Bologna (di cui 34 nel distretto cittadino). Ed eccetto sei casi, che riguardano studenti più giovani, tutti gli altri occupano la fascia 12-18 anni: si tratta di ragazzi senza apparenti problemi, che normalmente vanno bene a scuola e provengono da famiglie di livello medio-alto, ma che a un certo punto, improvvisamente, soffrono una profonda rottura interiore che li porta ad abbandonare i banchi e a ritirarsi in casa, eliminando i rapporti con l’esterno e concentrandosi spesso sulla tecnologia.

Eremiti o isolati sociali, come vengono definiti da educatori e studiosi, alle prese con un fenomeno ancora tutto da comprendere. Il nome è giapponese, perché è nel Sol Levante che questo disturbo ha cominciato a prendere piede, tanto che si dice ne soffra anche Masako Owada, la ‘principessa triste’, moglie del principe Naruhito. Tuttavia, se in Giappone l’origine può essere legata alla particolare cultura del Paese, da noi le caratteristiche sono distinte: «È un’altra realtà, completamente diversa dalla nostra, dove una prima grande differenza è la maggiore tendenza femminile a questa autoesclusione», spiega Bruna Zani, presidente dell’Istituzione Minguzzi della Città Metropolitana.

Alla base di questo distacco sembra emergere «la vergogna di non essere all’altezza dell’opinione degli altri», unita a una profonda inadeguatezza al mondo che circonda questi ragazzi: «Ci vogliono dire qualche cosa, forse che il mondo che abbiamo preparato per loro non è quello che vorrebbero», conclude la Zani.

Hikikomori, cosa significa

Il termine giapponese significa ‘stare in disparte’: indica un disagio sociale per cui i giovani (per lo più maschi dai 14 ai 30 anni) decidono di vivere rinchiusi in camera loro

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