
Metti una sera ottocentesca a cena: a Roma, con il senatore cesenate Gaspare Finali ed il poeta Giovanni Pascoli, di San Mauro. Con un colpo di scena, quasi una storia del terrore: intendiamoci, né virus né fantasmi, soltanto ‘drammatici’ problemi intestinali del poeta causa una cattiva digestione.
Desumiamo questa storiella a lieto fine dal fitto carteggio che Giovanni Pascoli, fuori dalla Romagna per l’insegnamento, intratteneva con l’adorata sorella Mariù: lettere che poi, dopo la scomparsa del poeta, Maria Pascoli pubblicherà. Va premesso che si tratta d’una lettera familiare, in tempi in cui la riservatezza era d’obbligo: anzi, fino ad anni non troppo lontani se per caso si rompeva un fidanzamento era doveroso restituirsi le lettere amorose (oggi non funziona proprio così…).
Torniamo a quella serata tragicomica e a un Giovanni Pascoli privato. Gaspare Finali era una sorta di “sponsor” del giovane poeta conterraneo che invitava spesso nella sua casa romana. Da un canto “Zvanì” ne era contento, dall’altro temeva che il senatore volesse rifilargli in moglie una delle sue figlie: Pascoli, di matrimonio, non ne voleva proprio sapere. Ma, una sera, capita di peggio. Arriva in tavola una vivanda: cinghiale in agrodolce, ciccia con pinoli e zucchero, assai poco invitante per Zvanì, che era più tipo da cappelletti, braciole e bottiglione di sangiovese. E tuttavia, scrive Pascoli, "bisogna pur mangiare, perché l’astenersi sarebbe sembrata una grande critica"”
Ma, appena finito, sente nello stomaco ‘un certo bollorino, un certo borbottio”. Impallidisce: "il bolli bolli cresce", il gorgoglìo aumenta. Comincia a temere il peggio, resiste. Inizia educatamente lo sganciamento dai suoi ospiti che invece lo trattengono (a quel tempo sarebbe stato indecoroso chiedere l’uso del gabinetto, a casa di un senatore, poi). Finalmente Zvanì scende le scale, in piazza trova una carrozza. Il cavallo va come una lumaca e intanto il poeta ‘prega fervorosamente Santa Mariù’ per arrivare “salvo al casamento” (il gabinetto esterno di casa). Arriva. Sale le scale "come un cervoZ"’: maledizione, trova occupato. E allora su e giù per le scale, riprova: il casamento adesso è libero.
Chissà, forse un prodigio di Mariù aveva dissolto nel cesso l’ignoto cuculo, annota perfidamente Alberto Arbasino nel suo saggio irriverente ‘La Bella Epoque per le scuole’. Il finale della lettera pascoliana è trionfante, con toni che oggi definiremmo fantozziani: “Ero libero! Con che gioia rumorosa e fragrante ringraziai la mia santa di avermi fatto giungere sano e salvo. Pareva la festa di un villaggio, al crepitar dei mortaretti!’. A volte succede, mica solo ai poeti, di patire un ’traversone’ di stomaco.