Mafia nigeriana alla sbarra "Pizzo, violenza e spaccio Condannate i Vikings" Chiesti 140 anni di carcere

Le richieste della procura per boss e soldati della banda che controllava il Gad. Tredici anni per Boogye, pene severe anche per i membri della gang del machete. "Raid di via Morata e rivolta dei cassonetti, plateali prove di forza del clan".

Mafia nigeriana alla sbarra  "Pizzo, violenza e spaccio  Condannate i Vikings"  Chiesti 140 anni di carcere

Mafia nigeriana alla sbarra "Pizzo, violenza e spaccio Condannate i Vikings" Chiesti 140 anni di carcere

di Federico

Malavasi

Il clan degli Arobaga-Vikings ha tutte le caratteristiche per essere ritenuto di stampo mafioso. E per capirlo sarebbe bastato fermarsi al tentato omicidio di Stephen Oboh, l’agguato a colpi di machete commesso in via Olimpia Morata il 30 luglio del 2018. Secondo il pubblico ministero Roberto Ceroni, quell’episodio "trasuda mafiosità". È la premessa dalla quale la pubblica accusa parte per chiedere al tribunale la condanna di tutti e diciassette gli imputati nel processo alla mafia nigeriana, approdato ieri alla fase della discussione. Il conto della procura è salato: quasi un secolo e mezzo di carcere, dal massimo di 15 e 13 anni per i boss (Albert Emmanuel detto Ratty, ed Emmanuel Okenwa detto Dj Boogye) ai 6 anni e otto mesi per i ‘soldati’. Richieste di pena severe, che vanno a colpire chi – secondo le contestazioni – per anni ha fatto il bello e il cattivo tempo in un quartiere Giardino trasformato in una piazza di spaccio monopolizzata dalle bande di nigeriani.

La panoramica. Il ragionamento del pm parte proprio dal tentato omicidio di via Morata, commesso da un gruppo di Vikings ai danni di un esponente del clan rivale degli Eye. Un raid che non può essere liquidato solo come "una questione di droga", ma che rappresenta una "prova di forza di un cult (così vengono chiamate le organizzazioni nigeriane, molte delle quali ritenute criminali anche nel Paese d’origine, ndr) su un altro". Nei Vikings, secondo Ceroni, si ritrovano tutti "i principali indicatori di mafiosità, dall’osservanza delle regole alla riservatezza, dalle parole in codice all’uso della violenza fino al versamento di quote da parte degli associati". Per quanto riguarda segretezza e riservatezza, il pubblico ministero si sofferma sul comportamento processuale di testi e imputati. "Nessuno ha detto di conoscere i cult – ricorda –. Abbiamo riscontrato estrema difficoltà nel riferire e nel parlarne. La reticenza dei testi denota timore e paura", frutto della "capacità di intimidazione" dei membri del clan. I silenzi e le contraddizioni degli imputati sono invece sintomo delle ‘regole auree’ secondo cui "il cult non deve essere menzionato" e "affiliato non accusa affiliato".

Le azioni della gang. Il raid con il machete e la rivolta dei cassonetti (l’episodio del febbraio 2019 che vide decine di nigeriani scendere in strada e bloccare viale Costituzione a seguito della falsa notizia di un giovane connazionale travolto da un’auto durante un inseguimento) sono per il pm emblematici del modus operandi del cult. Il tentato omicidio fu commesso in maniera plateale, "in pieno giorno e in una zona in cui tanti nigeriani potevano assistere". La rivolta dei cassonetti scoppia proprio perché "il fatto riguarda uno di loro e avviene nella loro zona. Nelle telefonate intercettate si parla di mafia e di mettere a soqquadro il quartiere". Anche gli svariati episodi di resistenza a pubblico ufficiale, commessi "in modo esibito", sarebbero da leggere come manifestazione del fatto di "non avere paura di chi agiva contro di loro".

Spaccio ed estorsione. La requisitoria si sofferma poi sul traffico di stupefacenti. "Importavano chili di droghe pesanti – analizza Ceroni –, avevano un aggancio stabile all’estero, basi logistiche per stoccare la cocaina, metodi operativi ricorrenti, un’attività capillare su una zona sotto il loro controllo" e, come se non bastasse, potevano contare su una "totale assenza di denunce da parte di connazionali". Poco credibili quindi i ritratti di "indigenza e povertà" dei protagonisti emersi nel corso dell’istruttoria. Per quanto riguarda l’estorsione ai danni di una connazionale venditrice ambulante contestata a Boogye, Ceroni non usa mezzi termini. "Okenwa – scandisce – chiedeva il pizzo. La donna sapeva benissimo chi fosse lui e cosa fossero i cult. Infatti, dopo le minacce non va subito dalla polizia, ma per prima cosa chiede aiuto a qualcuno vicino al clan degli Eye". Altro fatto emblematico, secondo l’accusa.

La conclusione. Per la procura dalle indagini e dal processo sono emersi molti elementi a sostegno dell’esistenza di un’associazione mafiosa al Gad. Da qui la richiesta di condanna per tutti i diciassette imputati, accusati a vario titolo di essere membri o vicini a uno dei clan che dettava legge in zona stazione.