"Vi sveliamo il lato oscuro della moda"

I cronisti della 3D della scuola di Argenta si lanciano in un’inchiesta che racconta cosa può celarsi dietro un abito in vetrina

"Vi sveliamo il lato oscuro della moda"

"Vi sveliamo il lato oscuro della moda"

Ecco la prova della classe 3D dell’istituto comprensivo Don Minzoni di Argenta, dirigente scolastico Diego Nicola Pelliccia. I giovani cronisti sono stati seguiti dalla prof Melania Marcogiuseppe, docente referente del progetto.

Il lato oscuro della moda

Voi sapete cosa si cela dietro alle vetrine luminose di alcuni grandi brand? Ci sono grandi catene di abbigliamento che immettono sul mercato decine di collezioni all’anno o anche di più. Questa “moda veloce” o “fast fashion” riguarda la produzione su scala industriale di indumenti fabbricati in poco tempo e venduti a basso prezzo. I prodotti del fast fashion vengono descritti come “veloci” sia per i tempi di produzione da parte delle fabbriche, sia per i tempi di consumazione da parte degli acquirenti, ragion per cui l’industria di abbigliamento su larga scala si è guadagnata l’appellativo di “moda usa e getta”. Il termine “Fast Fashion” venne usato per la prima volta sul New York Times nel 1989. Questo tipo di produzione industriale punta ad alimentare il desiderio di comprare e di seguire la moda attraverso strategie di neuromarketing, ovvero sfruttando il funzionamento del cervello con strategie psicosociali. In questo modo provocano un bisogno di acquisto compulsivo nelle persone e fanno credere loro che quel capo sia vecchio e non più utilizzabile prima della reale fine del suo ciclo. La produzione massiva di questi prodotti porta con sé tutta una serie di problematiche ambientali e sociali. Dal punto di vista ambientale, questa industria è seconda solo a quella del petrolio per quanto riguarda l’inquinamento. Difatti è responsabile del 20% dello spreco globale di acqua (per una t-shirt ne occorrono circa tremila litri e diecimila per un paio di jeans!); produce il 10% delle emissioni di anidride carbonica; emette più di un miliardo di tonnellate di gas serra. Dal punto di vista sociale, questi vestiti vengono prodotti nei Paesi in via di sviluppo come il Bangladesh, la Cambogia, l’India, l’Indonesia e l’Etiopia, dove la manodopera viene pagata pochissimo rispetto ai Paesi occidentali.

Gli operai che lavorano in queste fabbriche vengono costretti a ritmi di lavoro estenuanti per uno stipendio esiguo. In contesti del genere non sono rari incidenti, come quello avvenuto in una fabbrica del Rama Plaza, in Bangladesh, dove il crollo di un edificio adibito a fabbrica ha causato la morte di più di mille persone. Quando si va a fare shopping passando per le vetrine si osservano dei vestiti molto belli e così si finisce per comprarli. Ma per fermare questo impulso dovremmo prima farci delle domande: mi serve veramente? Posso sfruttare un abito per più occasioni? Posso comprare dei vestiti di marca più ecologica? La responsabilità che abbiamo in quanto consumatori, ma soprattutto in quanto esseri umani, è quella di assicurarsi che i nostri soldi finiscano nelle tasche di chi condivide i nostri valori. Continuare ad acquistare da queste aziende significa fare parte del problema.