Flaiano grande grazie al dna della provincia

Pierfrancesco

Giannangeli

Esattamente cinquant’anni fa, il 20 novembre 1972, moriva Ennio Flaiano, una delle menti più brillanti del Novecento. Tra i suoi fulminanti aforismi c’è pure quello che recita "e pensare che c’è un sacco di gente che vive e lavora a Macerata". D’altra parte lui il territorio della provincia lo conosceva bene, perché era nato a Pescara nel 1910 - una grande città, ma non una metropoli - e a causa di alcune vicissitudini familiari ad appena cinque anni fu mandato a vivere in una famiglia di Camerino e poi, in età scolare, venne spedito nei collegi di Senigallia, ancora Camerino, Fermo, quindi tornò in Abruzzo a Chieti, prima di trasferirsi a Brescia e, nel 1922, condividendo il treno suo malgrado con centinaia di camicie nere in picchiata sulla Capitale per la loro marcia, arrivò a Roma, dove rimase per tutta la vita, osservando la grande città con lo sguardo disincantato di chi proviene da tutt’altro posto.

Viene da pensare che Flaiano non sarebbe stato lo scrittore, giornalista, sceneggiatore e impareggiabile umorista che conosciamo senza appunto il dna della provincia, vale a dire quella specie di pellicola che protegge dal soffio ammaliante delle sirene che rischiano di far perdere il contatto con la realtà. Noi che in provincia viviamo la sentiamo bene quella protezione, che è anche un po’ appiccicosa, ma proprio per questo serve a tenere i piedi incollati per terra: non c’è successo, piccolo o grande che sia, capace di farci perdere il senso del reale, quella sana sensazione di precarietà per cui, se poi la vita svolta male, abbiamo sempre un piano B. Per questo è difficile che facciamo la fine del povero Kunt, uno dei personaggi più riusciti di Flaiano, il marziano che atterra a Roma, diventa una star contesa da tutti i salotti frequentati dalla gente che crede di contare, ma in un attimo passa di moda e allora va in depressione.

Noi di provincia per fortuna i razzi dell’astronave per ripartire li teniamo sempre accesi.