REDAZIONE MODENA

"Smart working per non inquinare? Sbagliato"

Il ricercatore Unimore Leonardo Pompa: "Emissioni dovute alle tecnologie in rapido aumento. Serve ’sobrietà digitale’"

di Alberto Greco

Quale è l’impatto che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, accentuate dal ricorso massiccio allo smart working in questa epoca di pandemia, hanno sul nostro pianeta, in termini di emissioni? E’ una domanda che pochissimi studiosi e ricercatori si pongono per una eccessiva fiducia nei benefici del lavoro da remoto, lo smart working, considerato una opportunità per contenere l’inquinamento da anidride carbonica (CO2) dovuto alla mobilità casa-lavoro, risolutivo della dicotomia lavorosostenibilità. Niente di più falso, come spiega un giovane ricercatore dell’università di Modena e Reggio Emilia, Leonardo Pompa, del dipartimento di Comunicazione ed Economia, che ha traferito le sue riflessioni in un articolo pubblicato da poco sulla rivista online ’ImpresaProgetto’, giornale elettronico di management.

Perché sollevare questi dubbi?

"Lo smart working è qualcosa di non perfettamente sovrapponibile al lavoro svolto da casa. Quella che viviamo è probabilmente l’età dell’indulgenza nei confronti della digitalizzazione. Un’età in cui l’entusiasmo per le potenzialità offerte dagli avanzamenti informatici ci annebbiano la vista e non ci permettono ancora di distinguere con nettezza il confine tra ciò che potremmo fare e ciò che, invece, sarebbe opportuno limitarsi a fare. Questa sorta di età dell’innocenza delle nuove tecnologie è un’epoca in cui si tende con troppa facilità a ritenere che i processi di digitalizzazione, dematerializzazione, virtualizzazione, siano sempre e comunque incolpevoli, incapaci di produrre contraccolpi indesiderati e dannosi".

Quali pericoli intravede?

"Restare a casa per non inquinare e fare un uso smodato dello streaming video rappresenta una scelta dai contorni potenzialmente ossimorici, antagonisti, opposti tra loro. Siamo indotti a pensare che non recarsi in ufficio possa generare benefiche ricadute sull’ambiente. La quota di emissioni imputabili alle tecnologie digitali sul totale delle emissioni di gas serra, negli ultimi sette anni, è passata dal 2,5 al 3,7%. Allo stesso modo, continua a crescere la domanda di metalli rari, necessari ad alimentare l’intera filiera della comunicazione digitale. Tra le cause principali di questo stato di cose, vengono annoverate l’esplosione dello streaming video e il ricorso sempre più massiccio ad apparecchiature a rapida obsolescenza. Nel settore si parla di un incremento dell’intensità energetica che viaggia al ritmo del 4% annuo. Si tratta di dinamiche evolutive che vanno nella direzione opposta rispetto a quella indicata dall’Accordo di Parigi sul clima".

Ci spiega meglio?

"La diffusione dello smart working provoca un incremento del ricorso alle tecnologie dell’informazione. Nel 2018 – ci rivela uno studio francese – le emissioni legate alla visione di contenuti online hanno raggiunto un livello pari alle emissioni annuali di tutta la Spagna. Come dire che i video online, ogni anno, rappresentano, dal punto di vista dell’impatto ambientale, una sorta di grande nazione virtuale, la quale, proprio come le nazioni reali, consuma energia in maniera costante e massiccia. Guardare un film che dura due ore, in alta definizione, significa scaricare un numero di gigabyte compreso tra 2 e 5. Un numero elevatissimo, se si pensa che tutti i testi di Wikipedia in lingua inglese non superano un ammontare totale di 12 giga. Inevitabile, a questo punto, pensare ai meeting virtuali, decisamente diffusi nell’ambito dello smart working".

Quale la soluzione per ovviare a questi inconvenienti che contrastano con gli obiettivi della riduzione dell’inquinamento?

"Interpretare lo smart working con la lente della digital sobriety, sobrietà digitale, può essere un buon esercizio di realismo. Se non altro, potremo capire una volta di più che nel mondo del lavoro, così come nella vita, non esistono soluzioni neutre rispetto agli impatti. Semmai, esistono i cari, vecchi mali minori. Essere digitalmente sobri significa ricorrere alle soluzioni tecnologiche, hardware e software, in misura proporzionale alle reali esigenze. In pratica, si tratta di usare la tecnologia quando e nella misura in cui ne abbiamo bisogno, senza eccedere in quantità e qualità. Il fatto che lo smart working ci abbia aiutato nel momento del bisogno non implica la sua necessaria estraneità a qualsivoglia forma di danno. Non dobbiamo rischiare una ’sindrome di Stoccolma smart’, in cui ci innamoriamo di qualcosa potenzialmente dannoso. Nell’amore cieco c’è sempre qualcosa di dannoso".