REDAZIONE RAVENNA

Blitz Greenpeace in piattaforma. Chieste condanne degli attivisti. Eni: "Si rischiò un’esplosione"

La Procura domanda pene di 3 mesi e 20 giorni per 17 attivisti, protagonisti dell’incursione nel settembre 2021. Per l’accusa si trattò di un gesto "altamente egoista e pericoloso".

La Procura domanda pene di 3 mesi e 20 giorni per 17 attivisti, protagonisti dell’incursione nel settembre 2021. Per l’accusa si trattò di un gesto "altamente egoista e pericoloso".

La Procura domanda pene di 3 mesi e 20 giorni per 17 attivisti, protagonisti dell’incursione nel settembre 2021. Per l’accusa si trattò di un gesto "altamente egoista e pericoloso".

Il 29 settembre 2021 raggiunsero la piattaforma Porto Corsini Mare Ovest "per denunciare il patto della finzione ecologica che vincola il nostro Paese alle fonti fossili". Per quel blitz la Procura ha chiesto ieri mattina 3 mesi e 20 giorni di condanna ciascuno per 17 attivisti di Greenpeace. Quella mattina, tre gommoni avevano raggiunto la piattaforma alle 9.30, con una manifestazione durata oltre quattro ore. L’azione, pianificata nei dettagli, vide tre attiviste calarsi con corde e imbragature per tendere striscioni contro lo stoccaggio di gas e contro Eni, mentre altri partecipanti vergavano scritte e un altro gruppo trasmetteva tutto in diretta Facebook sul canale di Greenpeace Italia. Eni, costituitasi parte civile e assistita dall’avvocato Enrico Di Fiorino, ha definito l’iniziativa "egoista", sottolineando come non tenesse conto di altri valori fondamentali, come "la salute e la sicurezza delle persone coinvolte". Il personale di piattaforma, infatti, intervenne immediatamente, insieme alle forze dell’ordine, per gestire una situazione che, secondo l’accusa, ha creato "un gravissimo pericolo", anche per quell’ambiente che gli attivisti intendevano proteggere. La piattaforma non estraeva più gas naturale, ma era utilizzata per il progetto di cattura e stoccaggio di anidride carbonica (CO2) nei giacimenti esausti. Per questo motivo, come evidenziato dalla parte civile, il mancato rispetto del limite di interdizione di 500 metri attorno alla piattaforma avrebbe potuto provocare un’esplosione, mettendo a rischio vite umane e l’integrità ambientale. La parte civile ha parlato di un’azione "miope e scellerata" che avrebbe potuto avere "esiti fatali", ricordando che l’impianto, immettendo CO2 in profondità a forte pressione, necessitava di rigide misure di sicurezza. Secondo Eni, l’azione, e in particolare la discesa degli attivisti lungo le tubazioni, venne compiuta solo per fini mediatici, ovvero per filmare l’esposizione di uno striscione e ottenere immagini d’effetto da trasmettere.

Diversa la posizione della difesa, rappresentata dall’avvocato Alessandro Gariglio, che si è opposto all’iniziale decreto penale di condanna, sottolineando come quella piattaforma non avrebbe dovuto essere più operativa, ma anziché venire dismessa, fu riconvertita in impianto di stoccaggio di CO2₂senza una Valutazione di Impatto Ambientale (VIA). Secondo la difesa, la protesta pacifica degli attivisti va inquadrata nell’esercizio di un diritto e in uno stato di necessità, volto a denunciare rischi reali per l’ambiente e la sicurezza. Gariglio ha ricordato che dopo il terremoto del 2012 in Emilia-Romagna sono emerse problematiche come, oltre alla già nota subsidenza, la liquefazione del suolo, fenomeni che mettono in relazione l’immissione di CO2 nei giacimenti esausti e i rischi sismici. Proprio l’assenza di una VIA avrebbe impedito di valutare correttamente i percorsi delle faglie e i rischi geologici collegati. Il giudice Tommaso Paone si è riservato la decisione, la sentenza è attesa per fine maggio.

Lorenzo Priviato