
L’ex dirigente chiama in causa gli enti locali: "Non fecero gli approfondimenti di loro competenza" .
Udienza show, quella di ieri, nel processo per il crollo della diga di San Bartolo, che il 25 ottobre 2018 costò la vita al tecnico della Protezione Civile Danilo Zavatta. Protagonista della giornata, tra i banchi degli imputati, il geologo Claudio Miccoli, all’epoca dirigente della Protezione Civile regionale, accusato di crollo colposo per aver approvato un progetto ritenuto carente dalla Procura. Rispondendo alle domande del Pm Lucrezia Ciriello, ha parlato a tutto campo, chiamando in causa Comune e Consorzio di bonifica.
Miccoli – difeso dagli avvocati Lorenzo Valgimigli ed Enrico Ferri – ha puntato il dito sulle mancanze degli enti locali: spettava a loro, ha detto, occuparsi delle verifiche strutturali e sismiche della diga, compiti che – secondo lui – non sono stati svolti adeguatamente. "Il Comune avrebbe dovuto controllare le opere dal punto di vista sismico e strutturale. Avevano tutto, anche il personale necessario, ma in conferenza dei servizi non dissero nulla, lasciando tutto a noi". Poi adotta una metafora efficace: "Se sei il proprietario di casa, ti preoccupi dei muri, non ti limiti a sistemare le mensole". E così, ha spiegato, la Regione si è ritrovata con il cerino in mano, costretta a colmare lacune di altri enti con un atto che ha definito di "generosità". Da qui un’osservazione quasi plateale: "Perché tra gli imputati ci siamo solo noi che abbiamo messo le firme e non c’è nessun rappresentante del Comune o del Consorzio?", lasciando intendere che le responsabilità siano state scaricate solo su alcuni attori della vicenda.
Tuttavia, dopo aver attribuito responsabilità agli enti locali, lo stesso Miccoli ha finito per ridimensionarle, sostenendo che il crollo sia da attribuire agli errori compiuti dalla ditta esecutrice, che avrebbe rimosso i presidi anti-sifonamento durante i lavori. "Se nel cantiere hanno tolto questi presidi, non era certo mia competenza prevederlo", ha chiarito. Il Pm ha comunque ricordato che il piano stralcio del fiume Ronco indicava la zona come ad alto rischio di esondazione e sifonamento. Miccoli ha ribattuto che, secondo questo criterio, "nei fiumi non si potrebbe fare nulla", ma che il suo ruolo era sempre stato quello di tutelare il corso d’acqua. Il suo compito in origine era solo quello di una valutazione di impatto idraulco, e da questo punto di vista l’impianto aveva le carte in regola. A suo dire, la costruzione della centrale idroelettrica – per l’accusa all’origine di tutto – non avrebbe compromesso la stabilità della chiusa, ma anzi avrebbe migliorato il deflusso dell’acqua perché avrebbe finito per allargare il corso del fiume. Ma c’è un altro punto chiave nella sua deposizione: il famoso “visto” al progetto esecutivo, su cui si concentra l’accusa. Miccoli ha spiegato che quel via libera doveva essere rilasciato dalla Regione con una serie di condizioni, inclusi quegli accertamenti strutturali che sarebbero spettati ad altri enti, oltre a un controllo in fase esecutiva. Un controllo che, però, non ci fu. Miccolì cambiò ufficio nel 2015, sulla questione del visto non vi fu "un passaggio di consegne", né fu consultato dai colleghi. Così nel 2016 il visto venne concesso, senza ulteriori indagini, addirittura a lavori già iniziati. Dunque, secondo la Procura, con leggerezza. Dopo Miccoli, è stato il turno dell’ingegnere Davide Sormani, che si occupò appunto dell’istruttoria per il rilascio del visto finale sul progetto. Per l’accusa la sua chiamata da un ufficio diverso da quello di Ravenna fu mirata, perché avrebbe posto pochi ostacoli. Lui ha spiegato di non essersi fatto domande sul perché di quell’incarico e di essersi limitato a valutare la compatibilità idraulica dell’opera, ritenendola non impattante.
Lorenzo Priviato