Ravenna, "Primo Bisi mi sparò, lo Stato mi risarcisca"

L’avvocato Manetti, rimase ferito nell’agguato, i legali dello studio della sparatoria hanno chiesto i danni allo Stato

Primo Bisi, a destra, in un’aula del tribunale di Ravenna (foto Corelli)

Primo Bisi, a destra, in un’aula del tribunale di Ravenna (foto Corelli)

Ravenna, 18 dicembre 2019 - «Il medico legale mi disse che delle cinque traiettorie che la pallottola avrebbe potuto prendere, l’unica non mortale era stata quella...". ‘Quella’ aveva significato per l’avvocato Francesco Manetti, oggi 50enne, la rottura di una costola ma per fortuna "la pallottola non trapassò il polmone, lo lesionò e basta: per questo posso raccontare la mia storia in prima persona".

La condanna di Primo Bisi, l’ultraottantenne che più di sette anni fa in studio gli sparò al petto, è da tempo definitiva. E quello che per curriculum può essere considerato quale uno dei più importanti criminali ravennati viventi – può ‘vantare’ tre omicidi e due tentati omicidi –, si trova dietro le sbarre a Parma. Manca ancora una cosa da definire: il risarcimento dei danni. Con la condanna , c’era una provvisionale da 100 mila euro. E da qualche anno, grazie a un’azione di pignoramento, dalla pensione di Bisi ogni mese vengono prelevati 145 euro (un quinto). Insomma, a conti fatti per coprire la sola provvisionale, bisognerebbe andare avanti per almeno altri 58 anni. Senza contare poi i danni legati agli aspetti professionali: il cruento episodio, ebbe cioè un certo impatto nello studio di Borgo San Rocco nel quale al tempo lavorava Manetti.

Ecco che allora è partita una richiesta al ministero dell’Interno per il risarcimento del danno, sia patrimoniale che non. La firma è quella dell’avvocato Tania Concetta Amoroso sia per conto di Manetti che dei soci dello studio, Danilo Manfredi, Federica Moschini, Monica Minguzzi e Giorgia Toschi. Nel documento non si avanza una cifra ma si delinea un concetto. E qui si arriva alla ragione del coinvolgimento del ministero: Bisi in quei giorni si trovava in detenzione domiciliare a casa del fratello a Longastrino dopo la condanna per gli ultimi due omicidi.

Era cioè appositamente evaso per raggiungere lo studio di Manetti. Non solo: in un paio di anni, era riuscito a procurarsi almeno tre pistole, due assemblate in garage. Anzi, quando lo psichiatra lo aveva esaminato dopo l’arresto, la vera soddisfazione Bisi l’aveva mostrata sull’argomento pistole: aveva riferito nei dettagli come fosse in grado di fabbricarsele artigianalmente usando colla, molle, tondini di ferro e il trapano. Una lunga dissertazione culminata con una rivelazione: la Beretta 7.65 che quel giorno s’era portato appresso, l’aveva nascosta vicino alla ferrovia di Savio ancora prima dell’omicidio della moglie e del vicino.

Ma chi avrebbe dovuto vigilare affinché ciò non accadesse? Secondo quanto lamentato al ministero, erano "le forze dell’ordine tenute a vigilare sul rispetto della misura detentiva". E il fatto che Bisi fosse evaso "da più di 24 ore" senza che nessuno se ne accorgesse, "evidenzia una carenza nell’attività di controllo".

La prima risposta della prefettura, risale a pochi giorni fa. Da un lato si sostiene che la richiesta danni sia andata prescritta in quanto giunta a oltre cinque anni dal fatto (e tuttavia la prima lettera al ministero è datata agosto 2016). Dall’altro si precisa che "il regime di detenzione domiciliare non presuppone sorveglianza costante ma semplici controlli". Certo, anche se è vero che Bisi non era esattamente un semplice detenuto.

"Non persi mai coscienza: è così ricordo ancora perfettamente tutto – racconta oggi Manetti –. Ricordo di avere reagito quando lui tirò fuori la pistola per spararmi, ricordo il colpo e la colluttazione. Sì, sono stato fortunato: l’unica traiettoria non mortale era quella".