
Tindaro Granata regista dello spettacolo «Vorrei un voce»
"Vorrei una voce" è il monologo che questa sera alle 21 Tindaro Granata porterà sul palco del Cocoricò. Nato dalla collaborazione del regista con le detenute di alta sicurezza della casa circondariale di Messina, lo spettacolo rimette in scena l’ultimo live di Mina per dare voce a chi ha perso la libertà di sognare. A fine esibizione Granata con Daniela Ursino, direttrice artistica del teatro nel penitenziario, e il giornalista Oliviero La Stella parlerà dell’importanza di portare la bellezza in un luogo impensabile.
Cosa racconta il monologo? "L’incontro con le ragazze del carcere di Messina, dove mi era stato chiesto di lavorare nel 2019. Con queste donne ho scelto di mettere in scena non il classico progetto, ma l’ultimo concerto di Mina fatto alla Bussola nel 1978. Ho proposto il playback, ma a patto che attraverso questo esercizio trovassero una verità per raccontare se stesse e le loro emozioni. All’inizio un po’ scettiche, le ragazze sono entrate in un mondo stupendo. Credo sia stato l’incontro più bello della mia vita".
Perché?
"Attraverso le canzoni di Mina quelle donne sono riuscite a trovare non solo quella femminilità e quella sensualità in quel luogo vietate, ma anche il coraggio di guardare se stesse in altro modo e, soprattutto di ricominciare a sognare. Cosa importante, perché mi dicevano spesso: qui noi ci sentiamo morte dentro. Dopo quattro anni ho sentito l’esigenza di raccontarlo, ho scritto il testo e ora sono io a portare in scena loro".
Cosa vedrà lo spettatore?
"Mostro cos’è successo in quei giorni in carcere durante le prove, intanto impersonifico cinque di quelle ragazze, raccontandone le storie, alternate ad alcune canzoni di Mina, come l’Importante è finire, Ancora, ancora, La voce del silenzio dalla quale prende spunto il titolo Vorrei una voce, nonché Io vivrò di Battisti e Caruso, cantate sempre da Mina".
Perché lo ha fatto?
"Per fa vedere al pubblico che ansie e paure delle detenute, la loro perdita di fiducia nell’essere umano che hanno subito è uguale a tante sensazioni che proviamo noi. Serve anche a sottolineare che nella casa circondariale loro sono esseri umani, scontano la pena per quanto hanno commesso, ma loro non sono un reato. La gente reclusa è costretta a fare i conti con se stessa, a chiedersi se è valsa la pena vivere, cosa che a me ha fatto molta impressione, perché significa che hanno toccato il fondo. Stando con queste donne, ho riformulato il mio concetto di libertà".
Cos’è per lei il carcere?
"Tutte quelle sbarre che ci mettiamo davanti tutte le volte che non abbiamo il coraggio di ascoltare la nostra voce e di seguire quanto ci renderebbe felici. Così ci si spegne e non si è felici". Cos’altro sta proponendo?
"Dedalo e Icaro, dove ho trasposto questo mito in una famiglia con bambino autistico e il padre che cerca di farlo uscire dal labirinto. Tra poco debutterò con Il malato immaginario a Cattolica.
Nives Concolino