
Un alunno in difficoltà con lo studio (archivio)
Una storia di dolore silenzioso, di frustrazione crescente e di battaglie solitarie. E’ la storia della lunga sofferenza di un bambino per un disturbo dell’apprendimento sottovalutato dalla scuola che si accompagna ora all’amarezza di una madre che per anni ha provato a sollecitare l’ambiente scolastico a riconoscere nella disattenzione del figlio una difficoltà specifica. Ce l’ha voluta raccontare lei, presentandosi con nome e cognome, ma in ottemperanza alla Carta di Treviso, che tutela i minori coinvolti in fatti di cronaca, non lo riporteremo.
Il figlio di questa mamma fanese ha 11 anni ed è oggi in prima media. Per tutti i cinque anni della scuola primaria, la madre ha segnalato ripetutamente alle maestre le difficoltà di apprendimento del bambino: "Non riesce a stare fermo, non riesce a concentrarsi, non è questione di educazione, c’è qualcosa che non va". Ma ogni volta la risposta era la stessa: "Deve imparare a rispettare le regole", "è troppo vivace", "deve stare zitto e attento". Eppure c’era una possibilità concreta per intervenire, avviare il percorso Umee (Unità multidisciplinare dell’età evolutiva). "Se la scuola segnala il bambino alla neuropsichiatria, i tempi di attesa si accorciano drasticamente - spiega - Se non c’è la segnalazione della scuola, può volerci un anno per una visita. E noi, per cinque anni, ci siamo fidati del giudizio degli insegnanti".
Il sospetto che si trattasse di un disturbo dell’attenzione (ADHD) però era forte, e quando il bambino è arrivato alla scuola media, la situazione non è migliorata. "Continuavano a dirmi che doveva imparare a concentrarsi. Nessuno ha mai detto: ‘Proviamo a valutare’. Alla fine l’ho fatto da sola, a pagamento. Cinquecento euro per la prima visita. È emerso che c’è un disturbo dell’attenzione sostenuta". Ma non basta una visita privata. "I certificati rilasciati da specialisti esterni non hanno valore se non sono riconosciuti dall’Ast. Ora sto seguendo il percorso nel servizio sanitario, ma ci vorranno mesi. Intanto, a scuola, i professori non adattano il carico di studio, non riconoscono il bisogno. Finché non c’è un timbro ufficiale, per loro è tutto normale".
La madre si dice profondamente amareggiata: "Mi sono dovuta sostituire alla scuola. Per fargli fare i compiti, ci volevano ore. Un esercizio che per altri dura mezz’ora, per lui era un tormento. E io gli stavo addosso. Ma non era colpa sua. Abbiamo sofferto tutti in famiglia. Se la scuola avesse svolto il suo compito, segnalando mio figlio già in seconda elementare… lui avrebbe vissuto un’infanzia più serena, con strumenti adeguati al suo modo di apprendere".
Tiziana Petrelli