
Ricordando Navacchia Due nuove bottiglie e l’idea di un vino nella Vena del gesso
di Gabriele Tassi
"Un’azienda? Prima di fruttare deve fiorire, deve essere bella". David e Vittorio Navacchia un po’ fanno i timidi e dicono di non aver ancora assorbito al 100% la missione imprenditoriale del padre Sergio, patriarca della cantina Tre Monti, scomparso poco più di un anno fa. L’azienda per lui? "era come un figlio", dicono ma per chi li vede da fuori è chiaro come con la filosofia del signore dei vini ci siano nati praticamente. Due bottiglie in onore di Sergio, il ’Classe 33’ declinato in bianco e in rosso, e la voglia di guardare avanti, al futuro, proprio come si fa con una creatura sangue del proprio sangue.
E allora spunta l’idea di un vino, "affinato nelle grotte della Vena del gesso", spiega David. Sì, quel parco candidato a patrimonio Unesco. Un procedimento, un modo di lavorare che potrebbe dare "una vera identità territoriale al vino oltre a richiamare turisti e appassionati. Ma non solo, lì, dove la temperatura costante per tutto l’arco dell’anno, potrebbe fare la differenza, conferendo anche un gusto caratteristico, a seconda della modalità di invecchiamento, per esempio con un ’barrique’, che lo faccia ben respirare", ovviamente con tutti i ’se’ e i ’ma’ del caso.
Ma torniamo a quello che non è più solo un sogno nella fucina di idee della Tre Monti, dove ci si scontra ogni giorno con l’agricoltura vera e il clima che cambia. Sì perché la declinazione in rosso del ’Classe 33’, è un "Sangiovese d’Imola, 6.666 bottiglie in tutto", spiegano i fratelli, "l’unico vitigno che abbiamo mai irrigato". Frutto di un progetto iniziato nel 2000 quando "piantammo la vigna così detta ’Bacchilega’. Un obiettivo ambizioso: portare nel bicchiere un sangiovese strettamente di territorio, senza “mediazioni” (legno) o “aiutini” (vitigni migliorativi). Solo con la vendemmia 2021, quando finalmente le piante sono entrate in età “matura”, ci siamo convinti che l’obiettivo, secondo noi, era centrato". E dietro c’è tutto il tema del caldo: "Se dieci anni fa ci avessero detto che avremmo avuto bisogno di comprare quote in un consorzio irriguo ci saremmo messi a ridere. Ma oggi, per quei terreni più esposti al sole è indispensabile".
Come è stata probabilmente indispensabile in questi anni la lungimiranza di Sergio: "Tre anni fa – racconta David –, ha deciso con tutta la forza i drenaggi del terreno. A quei tempi non ci sembrava importante, ma oggi, dopo l’alluvione, non aver riportato nemmeno un danno ci ha fatto riflettere quanto, da grande imprenditore, fosse attaccato all’azienda, proprio come un figlio, con la capacità di guardare in prospettiva". Un territorio vasto, distribuito su due pezzi di terra gemelli (circa 26 ettari ciascuno), ma diversi: uno, l’imolese, adagiato nella piccola fresca valletti a del Rio Sanguinario, confine (solo amministrativo!) fra Emilia e Romagna, l’altro il forlivese, sul colmo del colle a strapiombo sulla bassa ravennate.
E c’è tanto del padre nel ’Classe 33’ sia nel rosso, che nel bianco, uno Chardonnay di Imola in stile classico, con affinamento in tonneaux, anche questo fortissimo carattere locale. "C’era già l’intenzione di fare due vini nuovi prima che babbo se ne andasse – spiegano i fratelli – , e Sergio ha partecipato alla concezione di questi prodotti: c’è tanto di lui dentro". Non solo quel numero 33 così simbolico, oppure le 3.333 bottiglie di bianco prodotte. Ma c’è tanto del carattere e della filosofia Navacchia: "Ogni scelta dell’azienda per lui – proseguono i fratelli – doveva essere presa in prospettiva, nel segno di una continuazione futura, per il bene di ciò che si è creato e di chi vi lavora.Valori che per nostro padre Sergio arrivavano ancora prima del fatturato".

