Terremoto Marche 2016, pizzeria distrutta. "La nostra odissea per riaprire il locale"

Sei mesi per l’autorizzazione e contributi in ritardo

La pizzeria di Massimiliano Vecchioni e della compagna Silvia Giovannini colpita dal sisma

La pizzeria di Massimiliano Vecchioni e della compagna Silvia Giovannini colpita dal sisma

Caldarola (Macerata), 15 ottobre 2018 - «Ci hanno chiesto nove integrazioni alla pratica, ci sono voluti sei mesi soltanto per l’autorizzazione alla delocalizzazione dell’attività. C’è stato qualche momento di sconforto, nel quale abbiamo anche pensato di rinunciare ad aprire, ma alla fine è stato ancora più forte il desiderio di farcela, di ripartire proprio a Caldarola». La pizzeria di Massimiliano Vecchioni e della compagna Silvia Giovannini, che si trovava nel centro storico di Caldarola e si chiamava «Pizza in piazza», è stata duramente colpita dal terremoto del 30 ottobre del 2016. Così la coppia si è rimboccata le maniche per riaprire l’attività, lavorando duramente e investendo dei soldi, e nonostante lacci, lacciuoli e gabelle di una burocrazia pachidermica, ci è riuscita. Eh già, ora il locale si chiama «Pizza in piazza temporary store» e si trova nel viale Umberto I.

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Massimiliano e Silvia, come vi siete mossi dopo il sisma?

«Ci siamo messi subito alla ricerca di un locale adatto, perché volevamo riaprire il più presto possibile, usando i nostri risparmi. Quindi ci siamo subito adoperati per avere il permesso alla delocalizzazione dell’attività».

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Quanti passaggi avete dovuto fare prima di poterlo ottenere?

«Ci hanno chiesto nove integrazioni di documenti alla domanda di delocalizzazione. Poteva essere una dichiarazione, una planimetria, un preventivo e così via. Da quando abbiamo avviato le pratiche per l’apertura della nuova pizzeria sono passati circa sei mesi, tra tutto, per avere il via libera».

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Che cosa ha comportato, ogni volta, la richiesta di integrazione di documenti?

«Confrontarsi ancora coi tecnici e rispedire il materiale agli uffici».

Alla fine quando siete riusciti a riaprire l’attività?

«Il primo giugno del 2017. Il decreto di autorizzazione, invece, è arrivato dopo, ed è stato emanato alla metà di luglio del 2017. I soldi relativi alla delocalizzazione ancora dopo, tra ottobre e novembre dell’anno scorso, quindi tra i sei e i sette mesi dopo avere riaperto».

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Secondo voi, di chi è la responsabilità di tanta lentezza?

«Sicuramente non dei funzionari dell’ufficio ricostruzione, che spesso sono terremotati come noi, con la casa inagibile e la famiglia in roulotte. C’è gente lì dentro che si porta il lavoro a casa, pur di cercare di dare risposte il più presto possibile. Il problema sono le leggi fatte male, l’iter farraginoso, le norme spesso poco chiare e molte volte scritte da qualcuno che non è esperto del tema».

Che cosa serve, quindi per aprire un’attività?

«Bisogna avere un buon tecnico (il nostro è il geometra è Alessandro Butinelli), un buon commercialista, risparmi da investire e tanta voglia di correre per uffici».

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Quanti sono gli uffici a cui bisogna rivolgersi?

«Nel nostro caso, oltre all’ufficio ricostruzione, l’ufficio igiene, la comunità montana, il Comune, e poi c’è tutto il discorso relativo alla sicurezza. Senza l’aiuto della Cna, non ce l’avremmo fatta, sarebbe stato davvero impossibile».

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Siete in grado di quantificare i costi che avete sostenuto?

«Circa 40mila euro, seimila solo per rifare l’impianto elettrico. Ci sono stati problemi anche per cambiare fornitura di elettricità. La vecchia proprietaria del locale aveva mandato un fax per disdire la fornitura, e noi dovevamo passare dai sei kilowatt di prima a venti. C’è voluto un mese e mezzo per sistemare la questione e abbiamo speso 1.400 euro per avere un adeguamento della potenza. Per autorizzazioni, versamenti e permessi altri tremila euro, per tutto quello che è materia di sicurezza ancora duemila euro circa».

Ma almeno l’obiettivo è stato raggiunto: siete soddisfatti?

«Molto: ci tenevamo a riaprire proprio a Caldarola, dobbiamo dire che la pizzeria sta andando bene. Intanto abbiamo saputo pure che aspettiamo una bimba. Un bilancio, quindi, più che positivo».