REDAZIONE RAVENNA

"La ragazza aveva diritto al metadone"

Le motivazioni dell’assoluzione nel processo collegato alla morte di ’Balla’: "per il farmaco c’era giustificazione terapeutica"

La legge “abilita alla libertà di terapia” in ragione della “scienza e coscienza” del medico, compresa anche frequenza e tipologia dei controlli per vagliare l’efficacia dei trattamenti. E in quanto alla prescrizione del metadone al centro del processo, nel dibattimento non è emerso che fosse sprovvista di “giustificazione terapeutica nella tossicodipendenza della paziente”. Ecco perché il 17 marzo il tribunale di Ravenna ha assolto le 3 imputate, “perché i fatti non sussistono”, in relazione al metadone uscito dal Sert di Ravenna per mano di Beatrice ‘Bea’ Marani, 25enne di Lavezzola accusata di aver passato al 19enne Matteo ‘Balla’ Ballardini la dose che il 12 aprile 2017 lo aveva ucciso a Lugo dopo ore di agonia. Come sintetizzato nelle motivazioni a firma del giudice estensore Andrea Chibelli, la ragazza, difesa dall’avvocato Fabrizio Capucci, era stata chiamata in causa quale ’richiedente-beneficiaria’ del metadone. Assieme a lei in concorso, la zia 70enne Cosetta Marani ’nel ruolo di intermediaria’ (sempre avvocato Capucci) e la 65enne Monica Venturini quale ’pubblico ufficiale e medico in servizio al Sert di Ravenna’ (avvocati Alessandra Marinelli e Sandra Vannucci). Tre le imputazioni: falso, prescrizione abusiva di stupefacenti e peculato. Le indagini si erano focalizzate sulla gestione del metadone perché durante l’inchiesta principale, sulla morte di Balla, era emerso che Bea, “figlia di due infermieri e nipote di un medico in servizio in strutture sanitarie regionali”, poteva disporre di un “quantitativo di metadone spropositato”, compreso il flaconcino trovato vicino al corpo del 19enne. In un messaggio Whatsapp scambiato con Balla poco prima della morte, la giovane (ha annotato il giudice) aveva affermato: “Il metadone ne ho quantità industriali”. Gli inquirenti avevano elencato possibili anomalie, a partire dal fatto che la ragazza “fosse stata presa in carico dal Sert di un comune diverso da quello di residenza”. Ma pure che il suo caso non fosse “mai stato condiviso tra colleghi”; che le fosse “stato garantito un super-anonimato” a cui lei non aveva formalmente dato consenso; che la maggior parte delle volte a ritirare i farmaci fosse la zia, ex dirigente infermieristico all’Asl di Imola, e senza formale delega. Dalle testimonianze, si legge nelle motivazioni, è emerso che chiedere l’anonimato era “prassi consolidata” coi pazienti poi registrati con “consonanti del cognome e vocali del nome”. Il punto principale dell’assoluzione è stato però inquadrato nella legge di riferimento: assodato che la giovane fosse veramente tossicodipendente, “la cessione di metadone è avvenuta in seno all’attività istituzionale del Sert di Ravenna, accompagnata da piano terapeutico personalizzato”. In definitiva “gli elementi dell’accusa al più comprovano profili di negligente trascuratezza nella gestione terapeutico-amministrativa della paziente” non “i gravi addebiti dolosi contestati”.

Andrea Colombari