MARCO PRINCIPINI
Agrofutura 

Modello Inalca: "Il nostro impegno per circolarità e decarbonizzazione"

Giovanni Sorlini è il responsabile qualità, sicurezza e sviluppo: manure management e miglioramento delle pratiche agronomiche nel percorso per ridurre le emissioni dell’intero processo produttivo.

Giovanni Sorlini è il responsabile qualità, sicurezza e sviluppo: manure management e miglioramento delle pratiche agronomiche nel percorso per ridurre le emissioni dell’intero processo produttivo.

Giovanni Sorlini è il responsabile qualità, sicurezza e sviluppo: manure management e miglioramento delle pratiche agronomiche nel percorso per ridurre le emissioni dell’intero processo produttivo.

Da oltre venticinque anni Inalca – società del Gruppo Cremonini, leader nel settore delle carni – ha costruito una propria filiera integrata e circolare del bovino. La struttura industriale è basata su un modello di economia circolare che permette di rigenerare le risorse e limitare gli sprechi. E uno degli obiettivi principali di questo modello è l’impegno per ridurre le emissioni in tutto il processo produttivo".

Giovanni Sorlini, responsabile qualità, sicurezza e sviluppo sostenibile di Inalca, qual è il ruolo della decarbonizzazione per gli allevamenti?

"La decarbonizzazione ha un ruolo centrale: la sostenibilità, infatti, non deve essere vista soltanto come un argomento comunicativo o reputazionale, ma come un elemento chiave per l’attività d’impresa. Le direttive europee come la Csrd (Corporate sustainability reporting directive) sono complesse, ma se si riesce a entrare nel linguaggio e cogliere il significato di sigle e dati, ci si rende conto che poi, alla fine, questi indicatori diventano importanti strumenti di gestione aziendale, di canalizzazione intelligente di informazioni e di numeri. Parlare di decarbonizzazione, di emissioni, vuol dire sostanzialmente costruire indicatori che più di altri fanno comprendere la performance dell’azienda e i possibili margini di miglioramento in termini ambientali e anche economici".

Quali sono i presupposti per avviare processi di sostenibilità aziendale?

"La sostenibilità implica la necessità di misurare con precisione gli impatti ambientali in tutta la catena del valore, non solo nel perimetro dell’impresa. La misurazione diretta delle fonti di emissione nella propria filiera è fondamentale per orientarsi verso obiettivi di decarbonizzazione concreti. Non possiamo più parlare di questo tema senza disporre di dati primari, gli unici a dirci come incidiamo effettivamente sull’ambiente e soprattutto quali siano gli effettivi margini di miglioramento. Per gestire le attività di decarbonizzazione è quindi necessario un sistema strutturato di raccolta dati e un ambiente digitale adeguato. Così la decarbonizzazione può essere coerente al modello di business. L’Inalca è una azienda che ha fatto dell’integrazione la leva di sviluppo. Quindi, è chiaro che parlare di decarbonizzazione senza calarla nel proprio modello di business significherebbe non potere governare questo processo".

Parliamo concretamente di decarbonizzazione nel settore dell’allevamento di bovini.

"Inalca si è concentrata sul tema del manure management (gestione del letame), che vale circa un 30% delle emissioni complessive di gas serra nell’allevamento bovino, il segmento della filiera in cui si concentra oltre il 95% degli impatti totali. In questo settore stiamo investendo, ad esempio, nella conversione dal biogas al biometano. Oltre a questo, stiamo lavorando nel miglioramento delle pratiche agronomiche, che rappresentano un altro 30% del totale delle emissioni. Si tratta di tecniche di agricoltura di precisione applicate alla fertilizzazione dei suoli che consentono un utilizzo più efficiente dell’azoto, privilegiando al contempo nutrienti di origine organica ottenuti da processi di economia circolare rispetto all’azoto chimico, oltre a pratiche di sequestro del carbonio. Si sta lavorando moltissimo su traiettorie di economia circolare per valorizzare, non solo in ambito agricolo, tutti i sottoprodotti-coprodotti connessi alla produzione di carni bovine di cui spesso ci si dimentica: basti pensare ai sottoprodotti derivanti dalla lavorazione del sangue e delle ossa, che oltre a essere utilizzati per una fertilizzazione organo-minerale alternativa e competitiva rispetto alla fertilizzazione chimica, possono essere impiegati nel settore farmaceutico e biomedicale. Quindi, avere un modello di business che ha costruito sulla circolarità la leva di crescita significa disporre di soluzioni percorribili, concrete e scalabili, per contrastare le emissioni derivanti dalle attività agricole e zootecniche".

Su quali altri progetti state lavorando?

"Il terzo elemento, per fare capire che la decarbonizzazione consiste in un insieme di attività, è l’ultimo 30% legato alle emissioni enteriche dei bovini, che dipendono fortemente dai metodi di allevamento e alimentazione. Quindi, ogni intervento deve essere commisurato al tipo di razione alimentare e al metodo di allevamento per avere un impatto significativo. Un animale che pascola e mangia foraggi grezzi ha un impatto molto diverso rispetto a uno che segue diete più digeribili e ad alto contenuto calorico. Dunque, misurare correttamente e intervenire in modo mirato è essenziale per ridurre le emissioni".

Poi c’è il fronte delle filiere.

"È importante la collaborazione tra filiere del latte e della carne per affrontare le sfide della sostenibilità. Le forme più efficienti di allevamento bovino si basano sul modello dairy on beef: tecniche di allevamento che, partendo dalla produzione di latte, consentono di destinare parte della mandria alla produzione di giovani bovini da carne tramite incroci con razze pregiate, aumentando il valore economico anche per l’allevatore lattiero. Un approccio integrato tra le due filiere può contribuire a contrastare una delle preoccupazioni più gravi: l’abbandono dei pascoli tradizionalmente vocati alla produzione di bovini da carne tramite la linea vacca-vitello. A differenza del mondo del latte che si sviluppa in aziende tendenzialmente a ciclo chiuso e autosufficienti, chi opera nell’ingrasso bovino dipende fortemente dalla fase agricola a monte, ossia dalla linea vacca-vitello, un’attività di allevamento estensivo in forte calo, che si svolge in aree pascolative a bassa fertilità nelle quali l’allevamento di ruminanti è l’unica pratica possibile. Senza questa produzione, il sistema attuale non regge per mancanza di giovani animali. Per questo, strumenti come i bandi di filiera, i contratti per la riqualificazione sociale del territorio, già molto usati nei Paesi del Nord Europa, oltre a una collaborazione più stretta tra i vari attori della zootecnia, sono fondamentali. Solo così possiamo affrontare in modo sistemico la sfida della decarbonizzazione. Di fronte al calo nazionale delle produzioni bovine (l’Italia deve importare circa 60% delle carni bovine, è autosufficiente solo per il 40% con la propria produzione) e i profondi cambiamenti sociali in corso, serve creare piattaforme di confronto tra i grandi player nazionali del latte e della carne, superando visioni verticali che hanno funzionato fino a ieri, ma non bastano più per affrontare il futuro".