
L’armeria di via Volturno nel ’91. Nei riquadri, Licia Ansaloni e Pietro Capolungo
Bologna, 13 giugno 2025 – Luciano Verlicchi, quella mattina del 2 maggio del 1991, era come ogni giorno a scuola. "Mi venne a chiamare in classe uno studente, per dirmi che mi volevano al telefono", racconta. È questo l’incipit di una giornata che segnerà per sempre la sua vita. Una giornata che l’uomo, marito di Licia Ansaloni, trucidata assieme a Pietro Capolungo nell’armeria di via Volturno dalla banda della Uno Bianca, ricorda in ogni dettaglio.
Anche oggi, a 34 anni di distanza. "Sono stato tra i primi a mostrare perplessità su come si stavano svolgendo le indagini", dice oggi che un’inchiesta bis è aperta, con gli accertamenti affidati ai carabinieri del Ros.
Signor Verlicchi, già 13 anni fa, proprio dalle pagine del Carlino, aveva chiesto una nuova indagine. Perché? E ora che gli inquirenti hanno ripreso in mano carte e reperti cosa si aspetta?
"Mi aspetto che dall’inchiesta nasca un processo, teso a individuare le altre responsabilità, i contatti e gli appoggi di cui godevano i Savi. Le indagini di allora presentano troppi punti oscuri, troppe lacune. E fatti strani, come la scomparsa di verbali che avevo visto, coi miei occhi. Compreso uno che avevo in casa, relativo alla strage di carabinieri di Bagnara, che mi fu rubato assieme a 30 libri".
Torniamo a quel 2 maggio ’91. Cosa ricorda?
"Mi chiamò mia madre mentre ero a scuola. Mi disse: ‘Ti cerca la polizia... Hai mica fatto un incidente?’. Dopo poco uno studente tornò a cercarmi. Al telefono questa volta c’era un poliziotto. Mi disse che mi stavano venendo a prendere per portarmi in Questura. Dalle 11 alle 16 sono rimasto in un corridoio. Nessuno mi diceva nulla. Non sapevo nulla. Finché un agente mi fa: ‘Hanno trovato due ’sparati’ dietro al bancone’. È stato terribile".
Poi sono iniziate le indagini.
"Sono stato ascoltato tante volte. E ho avuto anche l’impressione che cercassero di capire quello che sapevo, più che volessero apprendere elementi per indagare. Ricordo distintamente quando mi mostrarono gli identikit. Uno era identico a Roberto Savi. Dissi al capo della Mobile: ‘Somiglia a uno dei vostri’. Dissi pure che era venuto da noi nell’84 a comprare un revolver 44 Magnum. Sbagliai l’anno, era l’82. Ma se avessero guardato nei registri, che erano solo 9, avrebbero trovato il suo nome: in una mezz’ora avrebbero potuto controllare. Ma non lo hanno fatto".
I famosi registri che qualcuno ha ‘sbianchettato’.
"Ecco, quando già i Savi erano stati arrestati, il processo avviato e l’inchiesta passata al procuratore Valter Giovannini, lessi su un giornale ‘L’armeria mette il bianchetto sui registri’. Andai subito dal magistrato, a spiegare che non lo avevamo mai fatto e mai lo avremmo potuto fare, visto che i registri venivano vidimati una volta al mese in Questura e se per caso c’era un errore, dovevamo solo tirare una linea rossa sopra, in maniera tale che il testo restasse comunque leggibile".
Lei ha avuto subito dubbi anche sul secondo identikit, quello attribuito a Fabio Savi.
"Non era palesemente lui. Lo dico da anni. Anche le armi... Si disse che a sparare erano Beretta 9x21, mentre in realtà erano Feg ungheresi 9x19. Sono esperto di balistica e mesi dopo la morte di mia moglie, sistemando l’armeria, trovai un’ogiva. In quel periodo quel tipo di cartucce erano prodotte solo da una casa tedesca, che le faceva solo per le esercitazioni della polizia. Savi ne aveva comprate in quantità, tanto che poi emerse che era pure stato chiamato in Questura a Cesena. C’erano cose che non tornavano, prima e dopo i Savi. Tanto che appena nata l’associazione dei famigliari delle vittime chiesi di destinare parte dei soldi ricevuti per incaricare un perito balistico. Mi risposero che noi famigliari non potevamo costituirci parte civile, quindi di lasciar perdere".
Perché, allora, gli inquirenti dell’epoca si sarebbero accontentati di questa verità?
"Perché forse si doveva coprire qualcuno. Anche il movente... Non volevano uccidere mia moglie. Lei è stata un ‘danno collaterale’. Cercavano Capolungo, lo dissero i primi testimoni. Che poi hanno ritrattato".
Oggi cosa pensa?
"Prima di tutto ringrazio Ludovico Mitilini, che con il suo grande lavoro è stato motore di questa nuova indagine. Poi penso che per arrivare alla verità sulla Uno Bianca sia necessario scavare sui tre episodi più gravi della loro scia di sangue: la strage del Pilastro, quella di Castel Maggiore e poi via Volturno. Sono collegati tra loro: basterebbe arrivare a capo di una, per svelare chi c’era dietro. La verità è rimasta indietro. E forse è più facile farla emergere oggi, rispetto ad allora".