
Vicini va in pensione "Il nostro ospedale non è secondo a nessuno ma il sistema è in crisi"
di Elide Giordani
Ha raggiunto il traguardo anagrafico dei 70 anni (il 27 gennaio) ma non significa che lascerà i suoi pazienti né, tantomeno, il campo di ricerca a cui ha dato contributi illuminanti. Nessuno peraltro si aspetta che Claudio Vicini – che per limiti di età lascia l’ospedale di Forlì dove è primario dell’unità operativa di Otorinolaringoiatria e Chirurgia Cervico-Facciale, e le docenze presso le Università di Ferrara e Bologna – metta da parte le sue conoscenze. Il suo sterminato curriculum fissa i traguardi di un autentico luminare stimato a livello mondiale. Ha al suo attivo oltre 16mila interventi chirurgici, centinaia di pubblicazioni, premi, riconoscimenti, incarichi di prestigio, e non solo nell’ambito dell’otorinolaringoiatria, dei disturbi del sonno dovuti ai disordini della respirazione, dei tumori dell’apparato testacollo che sono il suo campo d’azione primario.
Professor Vicini, cosa significa per lei andare in pensione? "Che devo lasciare l’ospedale e le università, ma non la mia attività libero professionale presso il Gruppo Villa Maria, il centro medico Primus di Forlì, e la chirurgia alla casa di cura San Pier Damiano di Faenza. Ma non interrompo totalmente neppure il mio rapporto con l’Università, poiché Ferrara mi ha nominato Eminente Studioso, con un rapporto biennale che prolunga l’attività specifica di didattica e ricerca".
I suoi 70 anni siglano anche un percorso professionale che tocca i 40 di attività, per buona parte all’interno del sistema sanitario regionale di cui si evidenziano sempre più spesso le difficoltà.
"Che non sono diverse da quelle del resto dell’Italia. È pur vero che su queste valutazioni s’innestano riflessioni di ordine politico e strumentalizzazioni di ogni tipo. Dal punto di vista tecnico però la sanità regionale e romagnola non ha nulla da invidiare a nessun’altra. Direi piuttosto che è il sistema ‘medicina Italia’ che è in crisi".
Come si esplica questa crisi? "Prendiamo il Pronto soccorso. Non ci sono medici. Nessuno vuole più imboccare quella specialità. E la colpa va attribuita alla programmazione nazionale che non ha visto come si potesse invogliare un medico che esce dall’università a spendere la carriera al Pronto soccorso. Non ha incentivi, gli si prospetta una vita difficile, poco remunerata e molto pericolosa. Lo stesso vale per i medici di medicina generale. Tutto questo compete al sistema sanitario italiano, non alla Regione Emilia-Romagna".
La cosiddetta medicina di prossimità può rappresentare una soluzione?
"È una tendenza che bisognerebbe assecondare. L’ospedale va sgravato dalle funzioni che possono essere declinate sul territorio. Non so se la ricetta attuale sia quella giusta. Ci saranno i medici necessari? Torniamo al tema dell’insana programmazione italiana. Senza medici è come costruire grattacieli sulla sabbia".
L’ospedale di Forlì rivela l’esigenza di un aggiornamento?
"Se volessimo attribuire un problema al Morgagni-Pierantoni, che non ne ha, potremmo dire che siamo stretti con la chirurgia. Siamo a corto di sale, di professionalità specifiche, di anestesisti. Con altre possibilità chirurgiche potremmo operare molto di più".
A Cesena è in programmazione il nuovo Bufalini, la cui data di avvio si allontana sempre un po’, ma c’è anche chi lo ritiene inutile.
"Un nuovo ospedale è una risorsa straordinaria, un’ottima opportunità. Perdere questa occasione non avrebbe senso. In più è ubicato in una location molto interessante. I tempi? A Forlì l’ospedale è nato dopo 25 anni di gestazione, lo dico per rassicurare i cesenati. Tempi lunghi, certo, ma è quanto succede in Italia".
S’è fatto un gran parlare dell’eredità che ci avrebbe lasciato l’esperienza del Covid. È già svanita?
"Lo dico serenamente: del Covid non si ricorda più nessuno. È stato largamente dimenticato. Ci ha dato solo un’opportunità, i collegamenti telematici visti finalmente come una risorsa. Ma il sistema non è stato ricondizionato dopo la pandemia".
Lei figura tra i 200mila scienziati nel mondo con la più alta attività scientifica attraverso la robotica.
"La mia disciplina non è mai stata un socio di maggioranza del robot. Ho imparato a impiegarla a Philadelphia ma nel giro di poco tempo tale uso è uscito dal pionieristico".
Cosa ha sacrificato per diventare un grande medico?
"Beh, qualcosa sì, il baricentro della mia vita è stato lo studio e il lavoro. Ma ciò non mi ha impedito di avere una vita intensa. Ho preso anche il brevetto di volo, una sfida in più al di là del piacere di volare".
Un’altra sfida è stata la politica, quasi 5mila preferenze nel 2020 come capolista per la lista civica ‘Bonaccini Presidente’. Come mai il capitolo si è chiuso dopo la mancata elezione?
"Avevo anticipato che non avrei lasciato la professione. Ma un qualche seguito lo ha avuto: mi è stato assegnato un ruolo, tra il tecnico e il politico, nel comitato di indirizzo e controllo del Sant’Orsola, che sto gestendo da allora".
Quanto ha contato la collaborazione di sua moglie Daniela?
"È un modo dire ma io l’ho vissuto come realtà di fatto: accanto a un uomo che ha successo c’è sempre una grande donna. Senza di lei avrei fatto un decimo delle cose fatte".
Lei è anche assiduo in curva a tifare Cesena. Che pensa dei nuovi padroni americani? I bianconeri andranno in B?
"Il calcio è come la fede, non si nutre di certezze ma di convinzioni fideistiche. E non aggiungo altro".