
Andrea Tartari con la fidanzata
Ravenna, 8 settembre 2020 - Quella banale discussione in strada a Porto Corsini, era presto degenerata in sei coltellate. Ed è così che la lite di un momento s’era trasformata nella tragedia di una vita. Perché quei due fratelli le avevano ucciso il fidanzato sotto agli occhi. Poi non avevano risarcito nulla, nemmeno i soldi per il funerale: condannati in via definitiva ed evaporati da nullatenenti nelle carceri italiane. A 12 anni dai fatti, Katia di Benedetto, tutelata dall’avvocato bolognese Antonio Gambetti, ha ora vinto contro lo Stato: il tribunale civile di Roma ha infatti condannato la Presidenza del consiglio dei ministri a darle 50 mila euro sulla base di una direttiva comunitaria del 2004, non recepita in tempo, che impone che ciascun Paese membro crei un fondo per le vittime di reati violenti nell’eventualità i responsabili non siano in grado di risarcire. Come nel caso dei fratelli Salvatore (53 anni) e Giovanni Vertone (50 anni), entrambi camionisti e con condanne passate in giudicato nel febbraio 2014.
Sono loro ad avere ucciso Andrea Tartari, il gommista bolognese assassinato a 35 anni la sera del 20 luglio 2008 sulla riviera ravennate proprio sotto l’abitazione della famiglia Vertone e a pochi metri dalla casa di vacanza dei genitori della compagna-convivente Katia. Indagini lampo dei carabinieri: i due erano stati bloccati pochi giorni dopo il delitto mentre, al culmine di una rocambolesca fuga verso Mondragone, loro paese d’origine, avevano deciso di andare a costituirsi al carcere di Carinola.
Uguale a 30 anni per Salvatore, inquadrato quale esecutore materiale. E 21 anni e 8 mesi per Giovanni, indicato come colui che da dietro teneva ferma la vittima in quello che era partito come semplice battibecco da parcheggio perché i due fratelli erano appoggiati all’auto nuova del bolognese, diventando presto – ha sintetizzato il giudice romano Francesco Oddi – «aspro scambio di insulti sfociato in colluttazione fisica a sua volta culminata con l’uccisione di Tartari».
Lui e Katia – prosegue la sentenza – «convivevano da oltre dieci anni» a Marzabotto. Non a caso insomma lei «ebbe ad assistere alla barbara uccisione del compagno, senza riuscire a portargli utile soccorso» a causa di «un forte strattonamento di Salvatore che le provocò lesioni personali». Il giudice ha anche sottolineato che «il rapido evolversi della situazione, la tragica morte del convivente e la distruzione immediata del loro duraturo e consolidato rapporto», hanno avuto inevitabili ripercussioni sulla donna.
Nonostante ciò Katia, con determinazione, ha seguito l’intero procedimento fino alla Suprema Corte, dovendo però subire un’ulteriore beffa: dei 50 mila euro di provvisionale assegnati dal primo grado, i due condannati non le hanno versato nulla. E nemmeno è andato a buon fine, per insufficiente capienza, il tentativo di inserirsi nella procedura esecutiva di casa Vertone in via Valle Giralda, la stessa di fronte al quale era stato compiuto il delitto e finita all’asta perché una volta in cella, i due fratelli non erano più riusciti a pagare il mutuo. Ecco che allora ad autunno 2015 la donna aveva citato la Presidenza del consiglio dei ministri contestando la mancata attuazione della direttiva europea sulle vittime da reati violenti.
Nel frattempo il quadro normativo è cambiato, sul tema si sono susseguiti più interventi sia della Corte di giustizia che della Cassazione fino a un decreto ministeriale del gennaio scorso: per questo le spese processuali sono state compensate tra le parti. Oggi però, dopo cinque anni, Katia può dire di avere avuto ragione sullo Stato in quella che era una battaglia di civiltà.