LORENZO PRIVIATO
Cronaca

Il carabiniere ucciso: Minguzzi, nuove perizie. La mamma di 91 anni: “Giustizia, io non mollo”

Il giovane ravennate fu sequestrato e poi assassinato nel 1987. In primo grado assolti i tre imputati: due ex militari e un idraulico. Chiesti accertamenti fonici su una telefonata con richiesta di riscatto

Nel tondo, mamma Rosanna con l'altro figlio Giancarlo; a destra, Pier Paolo Minguzzi: aveva 21 anni quando fu ucciso nel 1987. Caso riaperto nel 2018

Pier Paolo Minguzzi aveva 21 anni quando fu ucciso nel 1987. Caso riaperto nel 2018

Ravenna, 13 settembre 2024 – Rosanna Liverani, a 91 anni, continua a combattere con una determinazione incrollabile per ottenere giustizia per suo figlio.

Pier Paolo Minguzzi, studente universitario di Alfonsine e carabiniere di leva a Bosco Mesola, fu sequestrato la notte tra il 20 e il 21 aprile del 1987 e trovato morto nel Po di Volano il Primo maggio successivo, zavorrato a una grata per impedirne l’emersione. Dopo 37 anni di battaglie legali e personali, la sua voce rimane forte e chiara: “Pier Paolo deve avere giustizia, e io combatterò fino a che sarò su questa Terra per lui.” La sua speranza non si è affievolita nemmeno dopo la sentenza di assoluzione degli imputati emessa nel 2022, che ha deluso profondamente lei e la sua famiglia.

Il nuovo processo d’appello, che si è aperto ieri davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Bologna, potrebbe essere la chiave per raddrizzare il torto subito. Al centro del dibattimento c’è una questione cruciale: la richiesta di una nuova perizia fonica. La controversia si concentra sulla perizia condotta dal fonetista Luciano Romito, che in primo grado aveva escluso che la voce del telefonista, che richiese il riscatto per Pier Paolo, fosse quella di Orazio Tasca, uno degli imputati insieme ad Angelo Del Dotto e Alfredo Tarroni, i primi due all’epoca carabinieri e il terzo idraulico del paese. Tuttavia, la Procura, guidata dal sostituto procuratore Marilù Gattelli, e le parti civili (tra cui il Ministero dell’Interno) ritengono che la perizia di Romito non fosse sufficientemente rigorosa e scientifica.

La critica principale riguarda la metodologia utilizzata da Romito, che si basava su un approccio superato di rilevazione fonica. E si contesta che la perizia non abbia considerato adeguatamente tutte le voci intercettate, limitandosi a estrarre porzioni delle conversazioni che potrebbero aver compromesso l’accuratezza dell’analisi. In risposta, la difesa degli imputati, rappresentata dagli avvocati Gianluca Silenzi, Gerardo Grippo e Andrea Valentinotti, sostiene che non vi siano motivazioni sufficienti per rinnovare l’istruttoria. Secondo la difesa, la perizia di primo grado aveva già offerto un adeguato contraddittorio e aveva analizzato i dati disponibili in modo completo. In aggiunta, la difesa fa notare che all’epoca del sequestro di Minguzzi, in quella zona circolava un noto confinato di mafia, il che complicherebbe ulteriormente il quadro. Alla conclusione di un “delitto di mafia” erano, peraltro, arrivati i giudici di primo grado, che oggi il Pm punge: “La Cassazione dice che un giudice non può inserire una pista propria”.

Un altro aspetto controverso riguarda Alex Cervellati, un cameriere stagionale che, nei giorni successivi al sequestro di Minguzzi, si inserì nella vicenda con chiamate, lettere e cartoline inviate alla fidanzata della vittima, Sabrina Ravaglia. Cervellati, che si era presentato come un testimone chiave, fu infine archiviato e considerato un mitomane. Senza contare che in primo grado non brillarono per memoria (eufemismo) i carabinieri che a fine anni Ottanta furono chiamati a investigare sul delitto.

Anzi, i delitti, perché gli stessi tre imputati furono poi condannati per tentata estorsione a un altro imprenditore ortofrutticolo di Alfonsine, sempre da 300 milioni di lire, nell’ambito del quale, durante un appostamento, la notte del 13 luglio 1987 era stato ammazzato il carabiniere 23enne Sebastiano Vetrano, di origini casertane e in servizio a Ravenna.