
Cesare Govoni mostra la foto, è in braccio alla madre
Ferrara, 31 maggio 2025 – Ha trasformato una vecchia bici in un carrettino, davanti una sorta di ripiano con il tricolore. Sopra un pannello, i volti dei sette martiri con i loro nomi. La scritta: “In silenzio ma per ricordare”. E una data, 11 maggio 1945.
Non si è arreso mai Cesare Govoni, 85 anni, ai pedali per le strade del paese di Cento. Monito alla memoria. “Avere un padre, io non ho mai saputo cosa vuol dire”. Aveva quattro anni quando il suo – si chiamava Dino – l’uccisero. Insieme ai fratelli, sei fratelli. Non si è arreso mai e adesso, ottanta anni dopo, vuole scrivere una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella perché venga al cimitero per un tributo a quei martiri. “Non ci sono morti di serie “A” e morti di serie “B”.
E per me gli anni che sono trascorsi non cambiano di una virgola quello che è successo” dice con decisione. Ottanta anni fa, 11 maggio 1945, la guerra è finita. L’odio no. In qualche libro è l’eccidio di Argelato (Bologna), una scia di sangue, crimini di guerra compiuti a Pieve di Cento, responsabili alcuni partigiani della brigata ’Paolo’.
Ci furono i rastrellamenti dei militi della Repubblica Sociale Italiana. E calò la vendetta, alcune delle vittime nulla avevano a che fare con il regime fascista. Dino, Emo, Augusto, Ida, Marino, Giuseppe, Primo, i nomi dei martiri, i nomi che Cesare ha scritto su quel carrettino. Nelle campagne c’era una casa colonica. Per ore, nello stanzone dove erano rinchiusi, pugni, calci, colpi di bastone.
L’inferno. Chi non morì per le torture venne strangolato. I corpi furono sepolti poco distante, in una fossa. “Vennero scoperti sono alcuni anni dopo, era il 24 febbraio del 1951”, racconta ancora Cesare, presidente onorario del circolo di Fratelli d’Italia a Cento. Mostra quella foto in bianco e nero. Ha pochi mesi di vita, è in braccio alla madre, guarda in basso. Dove c’è il padre accoccolato, indossa una maglietta bianca, il colletto scuro. Sembra blu.
“Diedero ai miei nonni, siamo negli anni Cinquanta, mille lire per ognuno dei sette figli. Questo è il risarcimento che abbiamo avuto dallo Stato. Ma io non chiedo soldi, chiedo rispetto per quei corpi straziati. Nessuno è mai venuto qui a chiedere perdono”.
Settemila lire, il prezzo di quelle vite deciso dallo Stato. Il processo, a Bologna, si concluse nel 1953. Ci furono quattro condanne all’ergastolo per Vittorio Caffeo, commissario politico della brigata; Vitaliano Bertuzzi, vicecomandante; per Adelmo Benni, che faceva parte del tribunale partigiano. E per Luigi Borghi, che operò i sequestri. Il comandante della brigata Marcello Zanetti non fu processato, era morto nel 1946. Ma gli assassini riuscirono a fuggire in Cecoslovacchia, si persero le loro tracce, nella nebbia della storia. Con l’amnistia Togliatti i crimini vennero prescritti. “Il dolore non si prescrive, scriverò al presidente Mattarella”.