Pamela Mastropietro, la madre. "Metto i suoi abiti così vive in me"

La mamma della 18enne trucidata a Macerata. Viaggio nella sua cameretta

Alessandra Verni, la mamma di Pamela, all’interno della stanza della figlia

Alessandra Verni, la mamma di Pamela, all’interno della stanza della figlia

Macerata, 31 gennaio 2019 - «Ogni giorno penso a lei, sempre. Rivedo il suo sorriso, l’ultimo che mi ha fatto. All’inizio andavo ad abbracciare il suo accappatoio, per sentirla ancora addosso». Dopo un anno quasi nulla è cambiato nella cameretta di Pamela Mastropietro, nella casa vicino a piazza Re di Roma dove abitava con la mamma Alessandra Verni. Ci sono ovunque le foto della ragazza, sorriso aperto e sguardo dolce, i peluche sul letto, i libri. E ieri in camera c’erano anche i palloncini a forma di cuore che sono stati messi intorno alla panchina dove la 18enne incontrava gli amici e davanti alla tomba al cimitero del Verano. Cuori ovunque, «perché lei era così – la ricorda la mamma –, dolce e affettuosa. Aiutava sempre tutti, me lo hanno raccontato tanti suoi amici dopo».

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Cosa le hanno raccontato?

«Tanti episodi nei quali lei faceva di tutto per gli altri. In comunità ha salvato la sua compagna di stanza che si era tagliata le vene. Qui a Roma per un sacco di tempo ha aiutato un ragazzo che non aveva da mangiare. Ogni tanto la vedevo portarsi via il pane, ma a me non voleva dire per chi fosse. L’ho scoperto dopo. Era aperta con tutti e anche per questo più vulnerabile. Adesso questo ragazzo ha un lavoro e sta bene».

Cosa amava Pamela?

«Moltissimo ballare, aveva anche studiato danza. E poi la musica. Sento ancora i suoi cd, quelli che mettevamo nei momenti tristi per risollevarci, soprattutto Fabrizio Moro: le parole delle sue canzoni, l’energia che ci mette. Lui ha autografato la maglietta che le ho messo nella bara».

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Ha tenuto altre cose di Pamela?

«I suoi vestiti, che a volte metto. Lei prendeva sempre i miei, ma non voleva che mettessi i suoi perché diceva che al lavoro, facendo le tinture ai capelli, li avrei sporcati. Il suo accappatoio ormai è mio. La cameretta è quasi la stessa. Il nonno aveva iniziato a metterla a posto per il suo rientro, e invece abbiamo dovuto fare spazio alla bara».

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Spesso le ragazze nascondono tesori e segreti nei loro armadi. Lei ne ha trovati?

«Certo, anche dei bigliettini dove scriveva di volermi bene. Ma io lo sapevo che mi voleva bene».

Pamela è dovuta entrare in comunità con una doppia diagnosi: patologie psichiatriche e, legate a queste, abuso di stupefacenti. Che le era successo?

«Io facevo il terzo grado a tutti i suoi fidanzati, alla fine credo avesse anche timore a presentarmeli. Ma l’ultimo, incontrato a fine 2016, mi ha imbambolato. Aveva una faccia d’angelo, e invece con lui è iniziato tutto. Ho scoperto persino che la picchiava. Ma lei ci teneva tanto, pensava di salvarlo. Poi lui è stato arrestato, adesso è in comunità».

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Alla fine Pamela si era convinta a voltare pagina?

«Sì, sarebbe dovuta stare in comunità due anni. Un po’ la spaventava, ma aveva una grande voglia di ricominciare e tanti progetti. Voleva sposarsi e avere dei figli, e voleva aiutare gli altri. Ma lì a Corridonia non so cosa sia successo, non ce lo hanno detto. Era entrata il 18 ottobre, a noi l’hanno fatta vedere solo un mese dopo, e ancora ricordo l’abbraccio lunghissimo che ci siamo date. Poi eravamo d’accordo che sarei stata con lei, voleva che facessi i capelli a tutti e io glielo avevo promesso. A un certo punto però, senza che noi sapessimo nulla, ha iniziato a vomitare. Poi ci sarebbe stato il litigio del 29, perché voleva un’altra sigaretta dicono. Io non so. Aveva appena 18 anni, era una ragazzina. Chi li controlla questi ragazzi in comunità? Come è potuta scappare così?».

Il 13 febbraio si aprirà il processo a Oseghale. Riuscirà a essere lì in tribunale?

«Per forza. È tanto difficile e doloroso, ma non è niente rispetto a quello che ha sofferto lei. Questo mi dà la forza di resistere, per scoprire tutto lo schifo che c’è dietro la morte di mia figlia. Tante cose sono mancate con Pamela, non hanno funzionato, la Chiesa che non riconosco più, certi politici che non capisco più. Che ci voleva a dedicarle un minuto? Parlano di accoglienza, ma non accolgono nessuno». 

Qui a Roma sono state organizzate tante iniziative nel giorno della sua morte.

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«Sì. E fa piacere. Una parola, un abbraccio sono cose che aiutano».

Vorrebbe fare qualcosa per ricordare Pamela?

«Ho un grande progetto, per il quale sto lavorando perché non voglio chiedere soldi a nessuno. Una grande casa con tanti animali e operatori che riescano ad avvicinare i ragazzi, ad ascoltarli, e con la natura far capire loro che basta poco per godersi la vita. Per me un anno fa Pamela ha messo le ali, e questo progetto le sarebbe piaciuto tanto».